Pensieri oziosi sulla Pubblica Istruzione

Nelle scorse settimane sono stato stimolato da un amico a fare alcune considerazioni sulla scuola. Il tema nasceva dalla "frustrazione" di questo amico di non essere in grado di poter fornire ai propri figli un'adeguata preparaione scolastica, ovvero partiva dal presupposto che la preparazione scolastica pubblica sarebbe stata certamente inadeguata ed insufficiente.
L'impressione che ho avuto è stata quella di ravvedere una banalizzazione del tema "scuola", tema che secondo me è di estrema complessità e di estrema importanza. Per questo motivo direi anche che le semplificazioni o le facili approssimazioni non giovano a trovare una "buona" soluzione.

Il problema "scuola" deve essere affrontato nella sua interezza tenendo conto di tutte le variabili date, perché escluderne qualcuna significa trovare una soluzione "falsa", ovvero raggiungere una cattiva approssimazione.
E' per questo che il tema è assai complesso, non lo si può e non lo si deve ridurre in alcun modo: non può essere ridotto solo ad una questione meramente organizzativa, non può essere ridotto ad un semplice reperimento delle risorse, non può essere ridotto ad una semplice costruzione del portfolio educativo, non può essere ridotto ad una semplice valorizzazione o incentivazione dei docenti, non può essere ridotto alla semplice manutenzione dei programmi di studio, ecc., ecc., ecc.

Tutti questi sono solo alcuni aspetti dell'"oggetto" istruzione, nessuno di questi è marginale, ma certamente nessuno può essere utilizzato per elidere gli altri. E' ovvio quindi che se non si vuole banalizzare la questione posta il tema diventa molto difficile.

Come "osservatore esterno" mi sento di esprimere qualche considerazione, cosciente del fatto che gli operatori del settore o i fruitori dei servizi possano avere percezioni assai diverse dalle mie. Questo non significa che le mie considerazioni siano necessariamente "migliori" o "peggiori" di chi è a scuola perché ha figli in età scolastica o perché ci lavora.
Significa semplicemente che l'istruzione è un nodo cruciale della nostra società e come tale genera problemi e complessità che non possono essere ricondotte a strutture semplici.

1) il problema della scuola è un problema politico ed in quanto oggetto politico non consente di partire dal particolare per arrivare al generale, ma deve essere affrontato a livello generale. Intendiamoci bene sul termne politico, prima che ci possano essere dei fraintendimenti. Per me politico non significa "partitico" o "legato ai partiti politici", ma significa che è cosa che riguarda la collettività e che attiene al funzionamento di una società.
Come oggetto politico quindi una collettività si deve porre nelle condizioni di fare delle scelte politiche, ovvero, per esempio, decidere se cercare di garantire un'istruzione democratica, distribuita, paritaria tra tutti i cittadini, piuttosto che investire le risorse solo su alcune categorie di cittadini (gli intellettualmente superdotati, piuttosto che gli economicamente ricchi, piuttosto che i biondi di capelli, ecc.). Le possibili variazioni potrebbero essere tantissime, esistono almeno anche i mori ed i rossi :-), ma quello che mi interessa sottolineare è come il problema politico debba necessariamente prescindere dal singolo e debba coinvolgere tutta la società.
Mi pare quindi del tutto evidente che affrontare il tema partendo dal papà che si rammarica di non poter insegnare concetti matematici o fisici al proprio figlioletto di 4 anni, che pure sarebbe in grado di assorbirli e metabolizzarli, sia un approccio che porta inevitabilmente ad una distorsione ed a una frustrazione. Perché?
Il perché è evidente: in questo modo non si affronta il problema politico dell'istruzione, che riguarda tutta la società e non solo quel bimbo di 4 anni, ma semmai si affronta il problema personale di cercare, in modo legittimo, che il proprio figlio abbia le migliori opportunità che il suo intelletto gli potrà garantire. Questo però è un altro problema che esula dal problema generale dell'istruzione.

2) mi pare evidente che in Italia si sia percorsa la strada del "sapere distribuito", costi quello che costi, nel senso che la scuola è un investimento a perdere, il bilancio economico sarà in rosso, ma in compenso il bilancio culturale sarà in attivo.
In quest'ottica si è aumentata l'età per la scuola dell'obbligo, perché si è creduto che aumentare l'alfabetizzazione del paese sarebbe stato un ottimo investimento. Diciamo che l'obiettivo si è raggiunto solo in parte, perché sappiamo che in molte regioni del paese (dal ricco nord-est al povero sud) l'abbandono scolastico è estremamente elevato. Ma è ovvio che nonostante questi cattivi risultati l'alfabetizzazione in Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi 60 anni.
Porto l'esempio della mia famiglia dove nel giro di 3 generazioni c'è stata un'evoluzione notevole:
- mio nonno, classe 1911, ha preso la licenza elementare mentre già lavorava
- mia nonna, classe 1914, ha fatto fino alla seconda elementare
- mio padre, classe 1941, si è diplomato
- mia madre, classe 1943, ha preso la licenza elementare
- io, classe 1969, avrei avuto l'opportunità di laurearmi se avessi continuato a studiare.
Nel giro di 3 generazioni c'è stata un'evoluzione clamorosa, ma poi è subentrato un problema politico più pressante della necessità di alfabetizzare il paese: è subentrato il problema economico. Quanto costa la scuola alla collettività? E sulla bilancia pesa più la "cultura" del paese, o il bilancio economico?
Ed eccoci al modello che ci ha proposto l'ex governo Berlusconi: lo stato finanzia le scuole private, rubando risorse alle scuole pubbliche, nel nome di una presunta equipollenza. Io sono in completo disaccordo con questo sistema, ma devo riscontrare che purtroppo l'errore è antecedente all'ultimo governo. Pensate solo alla medicina / chimica / farmacia.
Pensate solo agli interessi economici che hanno le grandi case farmaceutiche nell'indirizzare gli studi in un senso piuttosto che in un altro. E' del tutto naturale che un brillante laureato in medicina / chimica / farmacia possa avere opportunità di studio, di accrescimento culturale che vanno a solo vantaggio del privato e disperdono l'"investimento" del pubblico. La famosa fuga di cervelli all'estero va in molte direzioni: università, laboratori indipendenti, multinazionali. In molti casi comunque va nella direzione del privato.
Del resto la società capitalistica postula che "business is business", per cui il farmaco che salva dalla malattia che affligge una popolazione non economicamente redditizia non verrà mai prodotto dalle multinazionali. E qui sta il deficit politico dell'istruzione in Italia: l'impossibilità, per la mancanza di copertura economica, di affrancarsi dall'interesse privato.
Se anche la salute è un bene pubblico cosa di meglio ci sarebbe nel consentirne la tutela all'altro bene pubblico che è l'istruzione?
Lo stesso vale per tutti i settori di interesse nazionale, si sarebbe detto qualche anno fa ... ora direi per tutti i settori di interesse per l'umanità. L'umanità è affidata alle politiche di sviluppo economico di imprese private e la cosa non ci spaventa? L'istruzione è "sottomessa" a queste politiche di sviluppo e l'unica cosa che i politici sanno "farfugliare" è che la scuola deve preparare gli studenti a questo mondo del lavoro? Credo ci sia un clamoroso deficit politico in una visione così limitata e poco lungimirante ...
Anche in questo caso mi sembra evidente che la legittima aspirazione di dare una base culturale di altissimo livello al proprio figlio non possa essere preso come elemento da cui partire per affrontare il tema della scuola. "Del resto mia cara di che si stupisce anche l'operaio vuole il figlio dottore" è l'aspirazione legittima sia del padre "povero", sia del padre "ricco", che la si guardi dal punto di vista economico piuttosto che dal punto di vista intellettuale. Ma che implicazioni ha il fatto che l'intelletto del figlio dottore può essere messo solo al servizio di un interesse privato? Credo che sia una sconfitta per la società ...

3) per quello che invece attiene al degrado della figura del Professore (volutamente con la P maiuscola) credo che in un certo modo questa cosa abbia a che fare con un evento descritto precedentemente e con una caratteristica tipicamente italiana: l'evento è la distribuzione del sapere che, come detto precedentemente, è avvenuta negli ultimi 60 anni, la seconda è l'arroganza con la quale noi italiani spesso affrontiamo le cose (vedi anche l'attuale dibattito nato sugli articoli del prof. Ichino che asseconda il luogo comune secondo cui i dipendenti pubblici si tirano i pollici).
La cultura di massa (non volevo usare questo luogo comune, ma non ce l'ho fatta) ha ridotto la distanza che esisteva tra il docente ed il genitore dello studente. Se la "sudditanza" psicologica e culturale che aveva mio nonno nei confronti degli insegnanti di mio padre è stata ridotta tra i miei insegnanti e mio padre, il meccanismo indica una tendenza che verosimilmente si confermerà anche tra me e gli insegnanti di mia figlia. Il rispetto inizialmente era garantito dall'impossibilità di percepire il Professore come un "pari" del genitore. Ora questo elemento non credo possa più esistere. Questo è un primo aspetto, che di per se non reputo negativo, perché mi sembra più giusto che l'autorevolezza di un professore (volutamente con la p minuscola in quanto nome comune) sia misurata sulle sue capacità, piuttosto che su una sorta di deificazione del tutto ingiustificata.
Il secondo aspetto invece risiede nell'innata arroganza degli italiani di credere di sapere meglio degli altri cosa è bene fare (in un altro luogo comune tutti siamo di volta in volta ct della nazionale di calcio, piuttosto che ct della nazionale di pallavolo, piuttosto che ct della nazionale di curling).
A chiosa va aggiunto l'ennesimo luogo comune secondo cui chi non sa fare insegna. Sfugge a molti che comunque anche saper insegnare è un saper fare. E' del tutto evidente quindi che la capacità di trasmettere ad uno studente la passione per la materia non si concretizza con un meccanico passaggio di nozioni, ma si sostanzia con una capacità di coinvolgimento che preme altri tasti della personalità dello studente. Insomma saper insegnare non significa solo essere padroni della materia che si sta insegnando, significa renderla accattivante e stimolante. Ed anche qui è ovvio che il bambino sollecitato dal papà sugli insiemi piuttosto che sull'apprendimento di una lingua straniera sia felice della cosa. E' del tutto naturale, ma questa "magia" risiede solo nel fatto che è il suo papà che gli insegna le cose. Purtroppo potrebbe benissimo essere che le stesse cose insegnate da un estraneo non coinvolgerebbero il bambino nella stessa maniera facendo sì che i risultati siano decisamente peggiori di quelli potenzialmente raggiungibili con il papà.
Ed anche in questo caso il partire dal particolare per arrivare al generale non fa altro che creare delle false suggestioni.
Personalmente credo che "il fai da te" nasconda due grandi rischi:
a) pensare che l'individuo sia autosufficiente nei rapporti sociali (e quei bambini che non hanno la fortuna di avere un papà che sa le lingue dovremmo considerli handicappati? e che dire di quelli che non sono in grado di riconosce un sillogismo perché il papà è geometra e può "solo" insegnar loro il calcolo per la costruzione di un muro portante?)
b) che la pedagogia sia un orpello inutile e che la sola conoscenza della materia sia garanzia di un buon insegnamento

4) a questi aspetti va aggiunto che il lavoro dell'insegnante non può essere ridotto ad un processo a stati finiti. Gli studenti non sono automi a stati finiti e non sono in grado di "garantire" sempre risposte identiche a sollecitazioni identiche. Ovvero il lavoro dell'insegnante non è una cosa "scientifica", cioè non è misurabile e riproducibile n volte in modo identico. Più che un lavoro industriale lo direi un lavoro artigianale e si sa gli artigiani non sempre consegnano in tempo e quasi mai con la stessa qualità :-)
Può quindi succedere che un insegnante si trovi a gestire situazioni dove la risposta degli studenti sia differente da classe a classe, ma anche da studente a studente. Questo stato di cose innegabile non più essere meccanicamente eliminato. Non è sufficiente fornire stimoli o incentivi ai professori per ottenere risultati migliori, perché lavorare sul materiale umano prevede che se la qualità di fondo è buona potrai ottenere dei buoni risultati, ma se la qualità di fondo è scadente potrai ottenere solo dei risultati scadenti, qualsiasi siano gli incentivi. Purtroppo la "qualità umana" scadente dei ragazzi è data il più delle volte dall'assenza dei genitori o addirittura dalla complicità dei genitori nell'avallare comportamenti censurabili da parte dei ragazzi.
(apro parentesi ... Siamo figli del nostro tempo e di questo dobbiamo tenere conto. Io non mi sarei mai permesso di "pensare" di mandare "affanculo" i miei, mi capita molto spesso di ascoltare telefonate in autobus di ragazzini 15enni che mandano "affaculo" il padre o danno della "puttana" alla madre ... se il rispetto dei professori scema evidentemente è dovuto anche al fatto che scema il rispetto per i genitori :-( ma certo questo non può essere generalizzato. chiudo parentesi)
Il discorso precedente è del tutto generale e prescinde dalla qualità in sè del docente e quanto detto sugli studenti può essere ribaltato sugli insegnanti. Ma anche in questo caso non ci sono stimoli che tengano: se è scarsa la qualità del docente non lo puoi far diventare il "Robin Williams" di "Attimo fuggente".

5) sull'etica dei comportamenti poi non me la sentirei di colpevolizzare oltremisura gli insegnanti (gli insegnati lavornao solo 18 ore e poi in nero arrotondano). I comportamenti antisociali delle persone sono spesso figli della società in cui si vive. Se guadagni 1250 euro al mese e devi pagare un mutuo di 600 euro e mandare un figlio all'asilo per altri 600 euro è ovvio che, anche se lavori solo 18 ore a settimana, a fine mese non ci arrivi. Se la scuola desse la possibilità di lavorare 36 ore per 2500 euro al mese forse qualcosa cambierebbe.
Con questo non voglio assolutamente giustificare l'insegnante che lavora in nero, ma resta vero che questo è un problema particolare che non può essere generalizzato. Del resto se almeno si conoscono persone che si comportano in questo modo si può sempre dirgli chiaramente che con il suo lavoro in nero ruba almeno un'attività part time regolare ad un disoccupato oltre a non pagare le tasse sul reddito e gravare in questo modo sulla mancanza di risorse anche della scuola. In sostanza è un "ladro" ed almeno glielo si deve dire. Non credo che questo risolva "quel" problema però almeno ti sei tolto una soddisfazione :-) e soprattutto potrai entrare nella schiera di coloro che non voltano la testa e non dicono: "tanto così fan tutti!"
L'unica soluzione al problema generale credo sia aumentare gli stipendi facendo in modo che contestualmente aumenti anche la professionalità. Questo certamente gratificherebbe un insegnante che non avrebbe certo la voglia di commettere un reato! Perché in fondo questo fa frodando il fisco.

Ho "buttato quì" un po' di cose che mi passavano per la testa, stimolato dalla riflessioni condivise in precedenza con amici e conoscenti.
Ribadisco che per "risolvere" la questione istruzione ci deve essere una volontà politica che trascende dai particolarismi che ci riguardano.

Per esempio una "volontà politica" che mi vedrebbe favorevole sarebbe la riassegnazione al ministero del nome originario, cioè ministero della pubblica istruzione (con tutto quello che ne conseguirebbe nella pratica). Quel "pubblico" è stato omesso dalla signora Moratti (per intenderci quella signora che in campagna elettorale accompagna il papà reduce dai campi di concentramento alla manifestazione del 25 aprile, ritenendo ininfluente il fatto di non averlo mai accompagnato nei 5 anni precedenti, la stessa che dichiara che il suo ministero ha aumentato i fondi per le scuole pubbliche, ma contestualmente costringe i genitori a dotare gli studenti di carta igenica o di carta per le fotocopie, quella che pur avendo firmato il rinnovo del contratto nazionale non ha ritenuto opportuno attivarsi in consiglio dei ministri per avere la copertura economica).
Anche questa signora ha chiaramente messo in campo una volontà politica ed è evidente in che direzione è andata questa volontà: a discapito degli operatori e dei fruitori dei servizi scolastici pubblici ed a vantaggio di chi può permettersi le scuole private. Speriamo che la musica cambi.

In un interessantissimo volumetto intitolato "Elogio dell'ozio" Bertrand Russell affronta anche il tema dell'istruzione ed in generale della pubblica istruzione.
Evidentemente sarà tema ozioso ... :-)
Qual è il suo punto di vista? In estremissima sintesi sostiene che i difetti che lui riscontra (scrive il libro nell'Inghilterra del 1935 e per questo, naturalmente, si deve fare una tara del suo pensiero) nel sistema dell'istruzione non saranno eliminati fino a che il sistema economico non subisca una trasformazione.
Ma qual è l'unica trasformazione "sicura"? E' quella che si identifica nel tendere ad uno stato socialista che sarebbe in grado di far fronte alla redistribuzione culturale che ovviamente in uno stato capitalista non sarebbe possibile (chi ha il capitale studia, chi ha solo i figli come ricchezza lavora).
In Italia questo è certamente avvenuto, siamo lieti di aver vissuto in un paese "socialdemocratico" (certamente socialista non si può dire), con tutti i pregi ed i difetti delle socialdemocrazie.

Ma dove voglio arrivare utilizzando le "robuste" spalle di Bertrand Russell per alzarmi al di sopra della mia modestissima visione dell'argomento? Voglio sostenere che non c'è progresso se questo non è collettivo. Lo "sbattimento" del singolo genitore può risultare fine e se stesso ...

Ecco alcune proposte concrete e "pragmatiche" per la visione di Stato che ho io in termini di istruzione pubblica:
- non finanziare la scuola privata di nessun ordine e grado (la finanzieranno i privati se intravedono elementi di business)
- definire la pubblica istruzione come un servizio pubblico non proficuo (ovvero non deve generare utili in termini economici, ma generare utili in termini sociali)
- garantire assistenza economica alle famiglie bisognose garantendo che la scuola sia per loro gratuita
- utilizzare "risorse aperte" accordandosi con docenti che sono disponibili a mettere a disposizione proprie dispense, materiali didattici, ... (questo sarebbe un gran risparmio per le famiglie e per lo Stato)
- organizzare costanti e periodici corsi di aggiornamento professionale per tutti i docenti che riguardino temi della materia specifica di insegnamento, ma anche temi pedagogici e psicologici
- rinnovare i contratti di lavoro dei docenti senza lasciar passare anni
(il contratto si firma, ma i soldi non arrivano. Anche questo genera frustrazione ...)
- garantire costanti rivalutazioni ed adeguamenti dei programmi di studio
- gestire le risorse umane formando una classe dirigente di presidi che non siano docenti "anziani", ma manager della "cosa" pubblica

Come queste attività possano essere declinate nell'Italia del 2006 è cosa che mi sfugge. Il discorso è molto più ampio delle mie capacità ed il mio è solo un contributo alla discussione.
Tecnicamente esistono dei provveditorati, esistono dei centri decisionali dei programmi, esistono le adozioni dei libri di testo demandate ai docenti, esistono delle finanziare che stanziano le risorse ... insomma torniamo come sempre e per sempre alla politica ed a un legame apparentemente indissolubile con l'economia. Ma se il parametro economico venisse tralasciato saremmo ben oltre alla metà dell'opera :-)

Sono utopie? Alcune delle cose che auspico già avvengono? Esistono
proposte migliori? Forse, anzi certamente, ma del resto se il tema non lo si affronta in termini generali credo che le nostre elucubrazioni siano solo chiacchiere di 4 amici al bar ...