Autore: Elias Canetti
Giudizio: ***
La realtà può essere comica, grottesca, crudele, meschina e in nessun caso può essere interpretata da un essere solo ed incapace di vederla per quello che è e non per quello che vorrebbe fosse.
Kien, sinologo di fama internazionale, vive in un appartamento nel quale custodisce migliaia di testi preziosissimi che ha letto e studiato. Li padroneggia e li ama come null'altro al mondo, sono la sua vita e la sua fede. Non crede nell'umanità, a partire dai colleghi professori, e diffida del mondo non curandosi delle necessità della vita. Quando esce dal suo mondo, i libri, trova il mondo reale nel quale è sperso, fuori luogo, goffo, grottesco. È cosciente della sua grande statura intellettuale che ostenta e non riesce a conciliarsi con la vita reale che per lui è solo leggere e studiare, null'altro. Lui è destinato a questo e non sa e non vuole occuparsi delle miserie umane come cucinare e tenere casa in ordine.
Per queste inutili piccolezze c'è Therese, la governante. I due sono quanto di più lontano si possa immaginare: se l'uno cita Confucio, l'altra parla dei prezzi al mercato e delle sue innate virtù domestiche e morali. Nonostante questa lontananza i due si sposano: l'uno per essere sgravato definitivamente da tutto ciò che non è la lettura, l'altra per un malinteso miglioramento della condizione sociale. Un matrimonio grottesco che trova ragione nella comunione di intenti che rafforzano l'esclusione del mondo al quale appartiene il congiunto.
Le loro vite si attorcigliano in un crescendo di tensione tra i due ai quali si affiancano altri grotteschi personaggi come il portiere, ex poliziotto in pensione, figure dei bassifondi di Vienna che Kien frequenta una volta cacciato da casa ed infine il fratello di Kien che potrebbe portare equilibrio, ma vi riesce solo in modo apparente separando ciò che era stato unito in modo forzoso e maldestro. Il finale sarà sfavillante, luminoso, caldo, inevitabile.
Per me una lettura ostica, colma di situazioni surreali alle quali puoi dare credito solo se volti pagina scoprendo che quanto raccontato nella pagina precedente è necessario preambolo di una situazione ancora più grottesca. Viene rappresentata la fotografia di una società colma di individualità che interpretano il vicino come un antagonista e scelgono, e cambiano, le alleanze in funzione di un beneficio personale immediato. Su tutto aleggia la superbia dei personaggi ognuno dei quali mette sé stesso su un piedistallo: Kien il più grande sinologo mondiale, Therese la cui statura morale è inarrivabile, l'irreprensibile Pfaff, ora portiere, ma ex poliziotto integerrimo, Fischerle il più grande scacchista del mondo temuto dal campione mondiale Capablanca, lo stesso fratello di Kien preso dalla sua missione di psichiatra che ottiene riconoscimenti ed apprezzamenti da colleghi e pazienti. Tutti capaci di vedere solo in sé stessi una reale consistenza e contribuendo a creare un insieme di egoismi ed opportunismi collettivi.
Autore: Stanislaw Lem
Giudizio: ****
In questo libro non si narra solo di un'esplorazione spaziale, ma si descrive anche la più ostica e travolgente esplorazione dell'anima, se così possiamo chiamare tutto ciò che sono i sentimenti, i ricordi, le relazioni con altre entità intelligenti raccolti come esperienze di un essere umano.
Solaris è un pianeta che gravita intorno a due stelle, particolarità che lo rende interessante per gli scienziati. Il pianeta è ricoperto da un oceano gelatinoso che pare sia il reale artefice della possibilità, che nega le leggi della fisica terrestre, di gravitare intorno a due stelle. Partendo da queste basi viene addirittura creata una disciplina, chiamata Solaristica, che è impegnata ad indagare questo strano pianeta. Dagli studi pionieristici emerge che l'oceano potrebbe essere qualcosa di più e di diverso rispetto all'iniziale ipotesi di soggetto fisico che regola le dinamiche gravitazionali. Alcuni scienziati valutano che l'oceano sia un vero e proprio essere pensante, dotato di intelligenza propria, ovvero che sia un essere vivente, l'unico abitante del pianeta secondo il metro umano.
L'attività dell'oceano si manifesta in modo mastodontico ed incomprensibile. Genera complicate e gigantesche strutture che persistono per un certo periodo e poi si sciolgono. Gli scienziati hanno catalogato tali manifestazioni della natura Solaristica e le hanno esplorate dando loro nomi stranissimi. Queste esplorazioni purtroppo costano la vita a diversi scienziati e piloti anche se il protagonista, Kris, intravede negli incidenti una strana avventatezza degli esploratori più che una reale intenzione dell'oceano di "difendersi". L'oceano pare ritrarsi per accogliere, per lasciar vedere fin dove è possibile. È l'uomo che si trova davanti all'inatteso e non riesce a gestire la novità.
Kris è uno psicologo e viene comandato a raggiungere tre colleghi scienziati sulla base del pianeta sospesa a diversi chilometri dall'oceano. Al suo arrivo viene accolto da un collega, Snaut, che parla in modo illogico quasi a voler nascondere qualcosa ed al tempo stesso voler mettere in guardia il nuovo arrivato. L'evoluzione dei primi accadimenti sul pianeta porteranno il protagonista ad incontri strazianti e dolci, inspiegabili e reali. Sarà l'inatteso che dovrà gestire.
Il libro è intriso della volontà dell'uomo di estendere le proprie conoscenze, ma mostra come questo avvenga per "conquista" e non per "collaborazione". Allo stesso tempo l'autore descrive la frustrazione indotta dall'impossibilità di comunicare, ovvero l'impossibilità di comunicare attraverso i canoni scelti dall'umano. Ma soprattutto l'uomo è pervaso dal terrore che il pianeta sappia ascoltarlo, conosca i suoi segreti più reconditi, ma non riesca a comprenderli. Un'entità che sa cosa pensi eppure non ti comprende è un ostacolo che per l'umano è insormontabile perché non pone al centro l'antropocentrismo che caratterizza l'umano da sempre. Seppur grandioso e mastodontico ciò che l'uomo esplora può essere catalogato, ma non accettato, forse perché l'oceano non è un essere vivente come l'uomo lo immagina, ma una moltitudine che lo osserva e che non lo sa capire. Questo schianta filosofia, scienza e cultura di una specie intera, quella che l'esploratore ritiene l'unica possibile.
Autore: Emanuele Atturo
Giudizio: ****
Questo è un volo sulla carriera di un grandissimo campione del tennis contemporaneo. Decolla dall'ultima finale di Wimbledon ad oggi, ma dubito ve ne possano essere altre, persa contro Djokovic e senza riuscire a concretizzare due match-point a suo favore. L'autore parte da qui e, per sintetizzare all'estremo, definisce Federer come il più bel giocatore di tennis anche se non il più forte capace di vincere i punti importanti.
La carriera di Federer muta nel tempo. Da ragazzo irascibile e propenso a rompere racchette, diventa giocatore apparentemente glaciale e "chirurgico" nel superare l'avversario, per approdare poi alla scoperta di essere più fragile di quanto appare quando si trova di fronte in particolare a due colleghi. La classe cristallina di Federer, inizialmente, non viene identificata da tutti come tale, a partire da campioni come Agassi. Nella testa di Federer, per ogni colpo, ci sono talmente tante opzioni disponibili solo a lui che paradossalmente non lo rendono più "forte", ma lo rendono più "debole". Però la sua maturazione interiore lo porta a trovare un equilibrio che gli consente di dominare incontrastato per qualche stagione il circuito tennistico. Apparentemente senza sforzo, lui è in grado di fare cose che per gli altri non sono nemmeno immaginabili. David Foster Wallace inventa il "momento Federer", quella magia che lo porta alla conquista di un punto che va contro ogni legge di fisica e di logica. Il suo tennis non è "utilitaristico", ma è il più bel tennis che si sia visto negli ultimi decenni, sicuramente da quando gli attrezzi di gioco si sono evoluti da racchette di legno a strumenti maggiorati e costruiti con materiali più vicini all'ingegneria aerospaziale che all'artigianato della zattera.
La seconda fase della sua carriera è quindi sontuosa ed inarrivabile. Gli avversari di quel periodo sono sgominati uno dopo l'altro, sembra che non ci sia per nessuno di loro una concreta possibilità di impensierire il Re.
Eppure all'orizzonte si manifesta un avversario irriducibile, colui che si mostrerà spina nel fianco da quel momento: Nadal che arriva anche a sconfiggerlo a Wimbledon. Poi arriverà Djokovic e, seppure in tono minore, Murray che però sarà in grado di negare a Federer l'oro olimpico alle olimpiadi di Londra 2012 nel giardino preferito di Federer, Wimbledon.
Pur non essendo più il numero uno incontrastato, Federer riesce a rimanere al vertice con il suo gioco fatto di estro, destrezza e longevità. Un gioco che, visti i modelli tennistici dei suoi avversari, appare contro intuitivo tanto da far pensare che Federer non possa essere esistito, mentre è stata una splendida apparizione che ha ridato lustro ai cosiddetti "gesti bianchi". Mi sento di sottoscrivere il pensiero dell'autore: se non si può dire che Federer è il più forte di tutti i tempi, però si può dire che è quello che ci ha mostrato il tennis più bello.
Autore: Andrea Scanzi
Giudizio: ***
Non chiamatelo maestro, è termine che riteneva improprio e che lo infastidiva, però potete ascoltarlo e godere di tutto ciò che ha prodotto.
Questo libretto non racconta nulla di nuovo per gli esegeti dell'opera di Battiato. Però rappresenta, in modo accessibile e senza troppi orpelli filosofici e filologici, l'evoluzione artistica (ed umana) di colui che non voleva essere chiamato maestro. Siamo in presenza di una apologia dichiarata, esplicita, all'interno della quale l'autore si ritrova spesso a scrivere la locuzione "uno delle cose migliori mai scritte" dichiarando al contempo che questa è frase troppo inflazionata per non incorrere nel rischio di depotenziare l'intrinseco valore che vuole enfatizzare. Però, al netto di questa propensione che ogni sincero ammiratore mostra nei confronti della persona che ammira, chi non conosce Battiato, o lo conosce solo per sentito dire, credo possa trovare in questo libro una buona via per approfondire.
Il talento (genio?... ma forse non gli sarebbe piaciuto) di Battiato gli ha consentito di esplorare i canoni della musica dal pop alla classica, dalla sperimentale alla melodica, senza negarsi cinema e pittura. Ogni suo estimatore può apprezzare solo piccoli spicchi della sua opera e negare la bontà del resto. Succede a tutte le persone di grande talento che possono spaziare senza essere capite fino in fondo.
Io non conosco la fase sperimentale di Battiato e non sento il bisogno di conoscerla perché mi apparirebbe incomprensibile, non sarei in grado di apprezzarla o disprezzarla. Al contrario sono ancorato al periodo più popolare, per certi versi altrettanto incomprensibile nei testi, quello nel quale la radio mi faceva sentire brani come "L'era del cinghiale bianco", "Up patriots to arm", "Prospettiva Nevski", "Bandiera bianca", "Cuccuruccuccù", "Centro di gravità permanente", "Scalo a Grado", "Voglio vederti danzare", "La stagione dell'amore", "E ti vengo a cercare", "Povera patria", "La cura", "Shock in my town". Io ascoltavo rapito e gasato, succube ed appassionato. Parole leggere, apparentemente casuali ed imperscrutabili, su un tappeto musicale che mi entrava in profondità nella testa. La profondità raggiunta per effetto della leggerezza.
Per il resto non so, e forse nemmeno mi interessa, perché a me questo è bastato.
Aneddoto personale:
Nell'agosto del 1982, dodicenne, stavo aiutando i miei a ritinteggiare l'appartamento. La radio era accesa e partì "Bandiera bianca". Ricordo ancora il mio pensiero: quanto dovevo sentirmi fortunato per vivere nel periodo in cui l'Italia era campione del mondo di calcio e la radio trasmetteva canzoni così belle come quelle di Battiato.
Autrice: Teresa Ciabatti
Giudizio: ***
Tutto ciò che leggerete in questo libro è (para)verità. La para era quella particolare gomma, di superficie irregolare e granulosa, di color marroncino chiaro, che veniva utilizzata nei sandali di colore blu "con gli occhi" e, negli anni '70, tutti i ragazzini erano convinti che con quelle calzature si potesse correre più velocemente. Era una (para)verità, ma tutti ne erano convinti.
La scrittrice e la protagonista del libro sono la stessa persona. Nessuna finzione, nessun inganno, lo scrive la scrittrice stessa, nonché protagonista. Questa, ora, è una donna famosa, intervistata, ricercata in televisione grazie alle sue grandi capacità, la migliore scrittrice italiana. In questa vita di apparente soddisfazione personale porta in sé un senso di colpa, nascosto per prima a lei stessa ed anche ai diversi analisti che l'hanno avuta in terapia. Una vita che si potrebbe definire travagliata: separata, eppure ancora si riferisce al marito come il marito che pure l'ha lasciata per un'altra donna, una figlia, Anita, con la quale ha un rapporto estremamente conflittuale, completamente rifiutata dalla ragazza che la ritiene responsabile della fine del matrimonio dei genitori, forse perché sa dei tradimenti coniugali della protagonista, iniziati il giorno prima del matrimonio. Tradimenti occasionali, così li chiama la scrittrice.
La fama raggiunta la riporta in contatto con la migliore amica dell'adolescenza, Federica, sorella minore della ragazza più bella della scuola, Livia, a sua volta fidanzata del ragazzo più bello della scuola, Massimo. Un quadretto perfetto se non fosse che la scrittrice in questo quadretto non si inserisce. Emarginata perché è la provinciale arrivata nella grande città a "cercare la ruota", figlia di una madre della quale si vergogna, chiaramente sovrappeso ed imperfetta, asimmetrica, si riferiscono a lei come la cicciona che è uscita con Federica e non la invitano alle feste. Ora la scrittrice viene contattata da Federica che le racconta di come ha seguito da lontano la sua brillante carriera, di come ha tenuto i ritagli dei giornali come una ammiratrice.
Inizialmente la protagonista è più disturbata che lusingata, non vuole entrare in questo vortice di ricordi che per lei potrebbero essere dolorosi. Poi accetta, forse per rivalsa perché adesso è lei quella famosa, e si rituffa nella sua adolescenza. Con Federica scavano nel loro passato e si confidano le rispettive e successive vite, si raccontando reciprocamente tutti gli errori, tutte le frustrazioni e tutte le difficoltà. La scrittrice vive questa intimità come un tuffo nell'adolescenza che in fondo non ha mai abbandonato perché non si è mai sentita adulta, nemmeno quando è diventata madre.
E rivede anche Livia, immutata, letteralmente immutata, sia dal punto di vista fisico, sia dal punto di visto comportamentale: lei è ferma ai suoi 18 anni. Questa constatazione ed il racconto che le fa Federica dell'evento oscuro del passato, nel quale anche la scrittrice è coinvolta, fa salire in quest'ultima il senso di colpa del non fatto quando avrebbe potuto fare. Quel senso di rivalsa iniziale non viene meno, anzi viene acuito, ora la scrittrice può dimostrare di essere lei la benefattrice.
È un continuo ribaltamento del ruolo per la protagonista che al contempo si vede nel giusto e nello sbagliato, sarà poi vero che lei è davvero quello che si sente, migliore? Incontra Massimo e fatica a riconoscerlo. Era il ragazzo più bello della scuola, anche lei se n'era innamorata, ma non veniva degnata di uno sguardo. Ora è invecchiato, ingrassato di trenta chili, con la barba. Eppure la protagonista sceglie di avere un rapporto occasionale anche con Massimo, quel ragazzo che le faceva battere il cuore. Così tradisce Livia, ed anche Federica, nonostante Massimo e Livia si siano lasciati in quei fatali 18 anni e per trent'anni non si siano più visti. Dove sta la bontà e dove la cattiveria?
Il 28 maggio però tutto avrà una fine, inaspettata, sembrava bellezza.
Autore: Arto Paasilinna
Giudizio: ***
Nella connaturata propensione all'infelicità umana (ricordate la "natura matrigna"?) in questo libro si narra la vicenda di un uomo che affronta tutto ciò che trova davanti a sé per giungere ad essere felice. E, pur raggiungendo questo stato agognato da chiunque, ogni azione che mette in atto non ha di per sé l'obiettivo della felicità, ma risponde al suo essere, ovvero non essere un uomo qualunque. Cocciutamente agonista, egocentrico seppur con oculata parsimonia, propenso a percorrere la via del giusto, docilmente attratto dal piacere, è la sfida che lo rende felice.
L'uomo felice si chiama Jaatinen ed è un ingegnere giunto in un piccolo paese per rifare il ponte sul fiume Eccidio, il luogo della storia locale, adeguatamente rimodellata dalla classe dirigente dalla comunità del posto. In questo contesto il protagonista si caratterizza nello spazio di pochissimi giorni per la sua straordinaria non conformità al luogo trovando negli operai del posto i più convinti sostenitori e nei notabili del paese i più convinti detrattori. Il personale agonismo ed irrequietezza gli impedisce di sottostare a ciò che ritiene ingiusto, per sé o per altri, e porta lo scontro ad un costante crescendo. L'ingegnere affronta uno ad uno tutti i detrattori che cercano di ostacolarlo. Non è una "sfida alla O.K. Corral" (anche se qualche colpo viene esploso), è una sfida al riconoscimento della propria libertà di azione e di scelta.
A ben vedere il comportamento di Jaatinen non è sempre limpido, ci sono passaggi controversi dettati dall'ingegno e dalla spregiudicatezza necessaria nella condizione dell'"uno contro tutti". Va pur detto che alla fine di ogni scontro anche gli sconfitti trovano una loro pace che può essere interpretata come la loro felicità. Si può quindi dire che il titolo è riduttivo perché, tutti i giocatori e tutte le giocatrici, traggono un beneficio personale e collettivo che li conduce verso la felicità.
L'uomo del titolo è forse una metafora della comunità intera. Infatti all'inizio della storia la comunità è apparentemente felice, seppur con qualche afflizione, ma alla fine della storia lo è maggiormente: quanto potrà durare questa ulteriore apparenza? È il protagonista stesso che, raggiunta una felicità letteralmente fuori dal comune, si interroga sul fatto che sia possibile un'altra felicità, diversa, più ampia ed esterna a quella che lui stesso dichiara di vivere. Si interroga se questa sfida per una nuova felicità accresciuta sarebbe davvero maggiore felicità, sminuendo quindi quella attuale. La risposta sta nell'età e nel fatto che, se prima la felicità è stata nella sfida, oggi la felicità sta in altro. Ogni età ha una sua felicità, l'importante è coglierla per ciò che è e non per ciò che potrebbe essere e forse, per questo, Jaatinen è un uomo felice.
Autore: Guido Vitiello
Giudizio: ***
Chi più, chi meno, siamo tutti lettori, eppure in questo libro non si scrive di tutti, ma si scrive solo di quella cerchia (ristretta?) di "condannati all'essere lettori". Per molti questo "status", essere lettore, è la grazia, la gioia che sfocia nel quotidiano piacere della lettura, ma che si trascina appresso annessi e connessi. Chi avrà la curiosità di leggere questo libricino potrà ritrovarsi "dotato" di questi accessori e della "pena" a cui conducono. Riderne o piangerne è una libera scelta come decidere di leggere l'uno o l'altro libro appoggiato sul comodino. Lo scrittore si espone apertamente creando quell'empatia inarrestabile che sgorga dal pensiero "lo faccio anche io", oppure "succede anche a me". Quando scatta questa scintilla ideale non si può che diventare buoni compagni di viaggio anche se, come scrive l'autore, massimamente seduti sul divano o sdraiati sul letto.
Il percorso proposto al lettore ha un ricco corredo di ossessioni ed ansie tipiche dei cosiddetti "lettori forti" e che spesso non hanno nulla a che vedere con la lettura in sé. Succede infatti che uno dei tabù che il lettore deve affrontare è l'azione di prestare un libro. Il più delle volte tale gesto, che è un semplice invito alla condivisione della lettura, si traduce nella tragedia dello smarrimento del libro che non verrà mai restituito. Tragedia alla quale persone di "buon senso" non possono esporsi ed un possibile stratagemma per non subire questo sacrificio è occultare la propria biblioteca (per i più facoltosi) o libreria per evitare la fatidica domanda: "me lo presti?".
Seppure di senso diverso le stesse ansie possono risiedere nei libri regalati. In questo caso non è la mancata restituzione o, nell'ipotesi non necessariamente migliore, le pessime condizioni nelle quali viene restituito il volume, perché il libro regalato non è mai solo un oggetto. In realtà è un soggetto dotato di anima e vita propria in grado di "spostarsi", di "offendersi" e di "filiare". Donare soggetti in grado di "autodeterminarsi" è una responsabilità immane soprattutto se il libro non si dimostra all'altezza del compito perché mediocre o insignificante per colui che lo ha ricevuto in dono. E che dire se non venisse nemmeno letto?
Non possiamo però prescindere dalla "corsa all'accaparramento" tipica dei momenti di crisi. Il lettore forte è avvolto da una crisi perenne per cui entra in libreria per acquistare un volume e ne esce con tre!, quattro!, dieci! Questo comportamento ossessivo compulsivo trova una parziale risposta nella "necessità" di leggere tutto. Operazione aritmeticamente impossibile, ma che davanti agli scaffali, davanti alla bancherella viene oscurata. Ed il lettore forte si ritrova il "classico" comodino sommerso di libri dei quali, al primo trasloco o spostamento, non ricorderà nemmeno l'acquisto.
Questa ossessione per il "tendere ideale a leggere tutto", anche nell'impossibilità letterale di poterlo fare, ha l'altra faccia della medaglia nel dichiarare come letti libri mai letti perché ci sono classici che "non puoi non aver letto".
Per non parlare dell'approccio alla "manipolazione" del volume. C'è chi lo legge allargando all'inverosimile l'apertura possibile tra le pagine e chi invece scosta le pagine con tale cautela ed attenzione che alla fine della lettura il libro sembra non essere stato nemmeno sfogliato. Poi ci sono quelli che fanno le orecchie alle pagine, scrivono note a margine, a matita o a penna, sottolineano anche con evidenziatori. Questi comportamenti sono tutti autoescludenti, se fai parte della "tribù" che sottolinea solo a matita rifuggirai il sottolineatore con penna o peggio con evidenziatore. Se scosterai le pagine con cautela non potrai mai solidarizzare con chi squarcia la rilegatura o fa le orecchie alle pagine. Eppure tutti leggono apprezzano, o disprezzano, lo stesso libro. È un modo diverso per affrontare la "vita della lettura", chi è più passionale, chi è più riservato e non ce n'è uno più giusto dell'altro.
Ed a proposito della vita ci sono interessanti passaggi sul concetto del vivere. È d'uso comune, peraltro supportato dal pensiero di grandi intellettuali, esortare alla lettura perché solo con questa potrai garantirti centinaia, migliaia (ma solo per i lettori fortissimi) di vite. Al contempo altri intellettuali e scrittori metabolizzano il fatto di aver letto troppo e di sentire la necessità di "gettarsi nella vita vera" e non restare rinchiusi nella vita romanzesca, finta per definizione. A queste due posizioni, ovviamente contrapposte, si contrappone la realtà dei fatti: se è vero che la vita romanzesca non è la vita vera, è pur vero che la vita vera non è dato sapere cosa sia precisamente, che fare la coda in posta o al supermercato, non ti rende più "vissuto" che aver letto un romanzo cavalleresco, seppure ora sai che la vita è colma di code e di attese, mentre forse può renderti più "vissuto" avere un travolgente amore o prendersi cura di chi ti sta accanto. Per certo non si è vissuto di più se si pubblica su un social media che si sta leggendo il tal libro, o si sta mangiando in tal posto, o si sta vedendo il tal film, o si ha mal di testa per un colpo dato allo scaffale mentre si recuperavano le attrezzature per un'escursione in Kenia. La vita è dove sei, qualunque cosa tu faccia, per questo io sono della scuola del "leggi tanto", ma non trascurare quello che fai quando non hai un libro aperto in mano perché la vita vera è questa, non trascurare.
Infine, ma il libro non finisce qui e non finisce così, si scrive dei lettori monogami e poligami. Il parallelismo amoroso può apparire improprio, ma solo se si prescinde dalla anima e vita propria che un libro possiede. Per questo ci sono lettori che non si sentono di "tradire" il volume in corso di lettura con altri testi, mentre altri lettori rinnovano quotidianamente l'esperienza di lettura facendo avanzare i progressi di più libri parallelamente. Ne scrivo ora, in conclusione, perché la lettura è amore, cultura, fantasia, passione ed ognuno sceglie di viverla come meglio crede. Del resto amare, o non amare, la lettura non deve diventare uno stigma, ognuno proceda per quanto può, per quanto riesce, per quanto vuole a prescindere dalla "tribù" alla quale appartiene, o meglio nella quale viene catalogato.
Note personali:
Io sono uno di quei lettori che non riesce a scrivere, sottolineare, fare le orecchie alle pagine dei libri.
Non ho letto Don Chisciotte e Madame Bovary, ma nemmeno L'Idiota, I fratelli Karamazov, Guerra e pace, L'uomo senza qualità, Sulla strada, Furore, Uomini e topi, Moby Dick, Le affinità elettive, Senilità, It, Il signore degli anelli, Il ritratto di Dorian Gray e tanti altri. Ad occhio e croce, in vita mia, ho letto non più di 400 libri, una miseria rispetto allo scibile umano, ma per me comunque una goduria, nonostante qualche delusione (per fortuna poche).
Tendo a leggere un libro per volta. La prima eccezione l'ho prodotta nel corso della lettura di Infinite Jest: nelle due estati (corrispondenti a sei settimane di villeggiatura) nelle quali ho terminato il libro, ho inframezzato con altri libri. Ad essa sono seguite poche altre letture poligame.
Ho abbandonato la lettura di tre libri: Sulla strada, L'isola del giorno prima (anche se di Eco ho amato Il nome della Rosa, ma soprattutto il pendolo di Foucault), Il signore degli anelli (anche se di Tolkien mi sono divorato Lo hobbit e faticosamente conquistato Il Silmarillion, quest'ultimo per me lettura assai difficile).
Su tutti ho un autore dal quale non sono mai stato tradito o deluso: Kurt Vonnegut. Escludendo i lavori di questo straordinario scrittore provo un sincero amore nei confronti de I ragazzi della via Pal (l'unico libro che mi è stato letto da bambino, ho riletto da bambino scolarizzato, ho riletto da ragazzo, ho riletto da adulto), Il giro del mondo in 80 giorni, Se questo è un uomo, Addio alle armi, Metello. Tanti altri libri mi hanno tenuti aperti gli occhi, ma tanti altri li ho dimenticati, non per colpa loro, ma per colpa del mio essere finito, limitato, parziale. Così va la vita (scrive Kurt Vonnegut in Mattatoio n. 5, o la crociata dei bambini)
Autore: Giorgio Fontana
Giudizio: ****
La storia di una vita geniale e malandata rievocata in presa diretta nel
corso dell'ultima partita di scacchi.
Miša, il protagonista, è il genio precoce e fuori dai ranghi. È
completamente privo di quella disciplina con la quale la scuola di scacchi sovietica ha forgiato i suoi campioni. Ne è privo non solo quando si trova di fronte alla scacchiera, ma anche nella
vita vissuta. Uomo gentile, capace di grande attenzione e cura nei confronti delle persone che gli stanno accanto, quanto distaccato e distratto, pronto a sacrificare tutto per uno sviluppo
imponderabile. Purché ci siano gli scacchi lui farà correre i singoli pezzi nel modo migliore su ognuna delle 64 caselle.
Gli scacchi sono letteralmente la sua ragione di vita. È capace di
accettare di giocare una partita in un bar con un suo ammiratore sconosciuto che sarebbe disposto anche a pagare per avere l'onore di quella partita. Questo non è necessario perché è la gioia di
poter giocare a scacchi che ripaga Miša e gioca ben volentieri con lo sconosciuto. Nel corso di una partita simultanea con una ventina di dilettanti, solo una ragazzina riesce a fare patta, ma
mentre questo risultato si concretizza lei si accorge di non aver annotato le mosse della partita e scoppia in lacrime. Miša con carta e penna ricostruisce la partita insieme alla ragazza e,
facendole un sorriso, le lascia l'autografo sul foglio appena redatto augurandole ogni bene.
Sulla tavola da scacchi è irruente, coraggioso, addirittura avventato. È
disponibile a sacrificare ogni pezzo per quello che ha in mente per il suo gioco. Nulla è intoccabile ed impensabile, sulla scacchiera può accadere tutto perché non è mero calcolo, ma è intuito
ed audacia. La maggioranza dei colleghi non la pensano come lui, ma lo temono perché sanno che da lui si possono aspettare di tutto. Si sparge addirittura voce che sia in grado di ipnotizzare gli
avversari. Una sciocchezza che contribuisce a costruire il mito del più giovane campione del mondo, fino a quel momento.
Nella vita vissuta nulla è diverso. Miša è disponibile a sacrificare
affetti, amicizie e pure la sua salute per continuare a giocare come vuole lui. In lui non c'è mai calcolo. Una stella talmente brillante che si brucerà rapidamente e che nell'ultima partita
rincorrerà i ricordi senza avere rimpianti. Proverà ancora, e per l'ultima volta, quella sensazione per cui solo la vittoria, e nulla di meno, è possibile. Andava fatto quello che si doveva fare
e lui lo sapeva fare meglio di tutti gli altri, senza superbia, con grande rispetto per tutti, anche se il costo sarà il sacrificio estremo.
Autore: Rick Dufer
Giudizio: ***
Già nel titolo, e nel sottotitolo, troviamo i presupposti essenziali per
la librificazione del testo: il caos, i morti viventi, una (possibile) guida per. Tanto che il buon Seneca potrebbe apparire addirittura ridondante se non fosse che, io credo, Seneca sia solo
l'innesco, quella "cosa dalla quale nasce cosa" e che non è mai semplice, o semplificante, o, appunto, orpello inutile ed eccessivo. Che se poi conoscessi Seneca potrei valutare le cose
altrimenti, ma questa è una storia che non posso raccontare perché non conosco Seneca.
La cosa che più mi ha intrigato di questo libro è il tentativo di
indicare che se una cosa è possibile non è necessariamente (molto) probabile. In una società nella quale tutti sono zombie è possibile che io/tu sia/mo dei loro. Anche se, avendo io scritto
tutti, sarebbe contro la logica che anche io non lo fossi con certezza. Come ne usciamo da questo paradosso? Intanto, molto semplicemente, perché quel tutti l'ho inserito io che non ho alcun
titolo, ma il punto, a mio avviso centrale, sta nell'indagine alla quale veniamo invitati dal saggio: tu potresti essere uno zombie oppure no, però adesso lo devi verificare tu e se non lo vuoi
fare è probabile che tu sia uno zombie.
L'antidoto è pensare autonomamente senza lasciare che altri lo facciano
per noi. Con tutte le difficoltà del farlo nel grande rumore prodotto dall'infodemia in corso che tende a rendere circoscritti problemi che in realtà sono illimitati per dare risposte (certe) su
tutto e per tutto e per sempre.
Praticare l'esercizio del dubbio è una profilassi antizombificante, ma è
necessario dosarlo adeguatamente per evitare il dubbio che paralizza, ovvero per evitare che il dubbio ci attanagli a tal punto da renderci incapaci di affrontare la realtà, e non sto pensando
alla scelta tra pizza margherita e pizza quattro stagioni. In tal senso la risposta viene data dal concetto di intraprudenza che vale la pena approfondire, se non altro per la curiosità indotta
dal neologismo.
Trovo anche molto interessante la valutazione sul ribaltamento che il
concetto di politicamente corretto ha subito che, per come la vedo io, è l'anticamera del "non sono razzista, ma..." e pure la figura metaforica dello "spigolo" che è quell'angolo della nostra
vita contro il quale "sbattiamo" e che ci provoca dolore solo se non siamo zombie.
Infine due righe personalissime: leggere un saggio nel quale vengono
citati Philip K. Dick, Kurt Vonnegut, David Foster Wallace, mi ha rinfrancato. Anche grazie a questo è possibile respingere l'incipiente zombificazione contro la quale non c'è shampoo che
tenga.
Autore: Albert Camus
Giudizio: *****
Forse c'è una nota di presagio che risiede nel fatto che il luogo dove tutto accade sia un luogo brutto. Comune e brutto. Una città mal concepita che volta le spalle al mare, vicinissimo, ma dalla cui vicinanza il clima non trae benefici. Una città ordinaria nella quale le vite scorrono senza sussulti. Tutti i cittadini hanno ruoli definiti, forse definitivi, incasellati negli schemi prescritti da una normalissima città dove ci sono i quartieri per i ricchi ed i sobborghi per i poveri.
In quest'ordine, a suo modo rassicurante, da un giorno all'altro, si manifesta la falla: il sottosuolo decide di "spurgarsi". Migliaia di topi emergono dalle fogne per trovare la morte in superficie. Inizialmente la cosa non desta troppo allarme, come se non fosse nulla di più che un fatto della vita. L'emergenza viene vissuta come un problema di nettezza urbana che richiede impegno di mezzi ed uomini fuori dall'ordinario, ma il sentore comune è che prima o poi la città sarà liberata da questa incombenza straordinaria.
In realtà il pericolo all'orizzonte è ben altro e le conseguenze non tardano a mostrarsi. Ai cumuli di topi iniziano a sommarsi anche i cadaveri umani. È la peste.
Ha inizio la cronaca dei fatti che interseca le vite dei personaggi nella lotta quotidiana, sia che si mostri attiva, sia che si mostri passiva. Ogni singola aspirazione, speranza, emozione è schiacciata dalla nuova vita alla quale tutti sono costretti. Ognuno si trova di fronte ad una condizione inconcepibile fino a poche settimane prima. La città è chiusa e chi ha l'amore, i cari, lontani non potrà più raggiungerli o essere raggiunto. Pure le comunicazioni sono difficilissime e spesso prive di risposte. Ma anche chi ha la fortuna di avere le persone care vicine è costretto a rivedere la propria condizione. Quello che aleggia su tutti li costringe a ripensare a cosa sono, a cosa vogliono essere ed a cosa possono essere.
C'è chi vuole assolvere al proprio ruolo fino in fondo, dottore tra i malati. C'è chi vuole spiegare le ragioni profonde, ma necessarie, dei dolori che si provano, uomo di fede tra i fedeli che non devono dubitare della fede. C'è chi vuole scrivere quello a cui sta lavorando da anni, da quando ha perso la sua amata per negligenza, per non aver trovato le parole giuste. C'è chi vuole tornare dalla sua amata perché, senza di lei, pensa che per lui sarebbe il nulla. C'è chi nasconde qualcosa, forse, di terribile. C'è chi aspira ad essere santo perché non è così ambizioso da aspirare ad essere uomo.
La tempesta sanitaria avvolge la città ed ognuno è avvolto anche da una tempesta personale con i propri dubbi, le proprie paure, i propri bisogni. Tutto ha una fine, anche la peste. Alcuni di coloro che riescono ad uscirne dovranno fare i conti su cosa è cambiato in loro prima che su ciò che potrebbe essere cambiato nel rapporto con chi ritroveranno. Per altri sarà necessario fare i conti su chi hanno perso e non potranno rivedere mai più.
La peste non cambia mai, sono gli uomini e le donne che cambiano.
Autore: Paolo Maurensig
Giudizio: ***
Le diverse storie e persone che trovano albergo in questo romanzo hanno la musica in comune, in alcuni casi anche in modo inconsapevole o per interposta persona.
Il collezionista che acquista un violino ad un'asta. Per lui è un pezzo sottovalutato, la qual cosa lo soddisfa pienamente perché lo ritiene splendido ed adeguato per entrare a far parte della sua collezione acquistandolo ad un prezzo assai vantaggioso.
Lo sconosciuto disposto a tutto, anche a comportamenti sconvenienti, per venire in possesso del violino. Non è riuscito a partecipare all'asta ed in qualche modo, con il suo atteggiamento, spaventa il collezionista. Si rivela poi sinceramente interessato solo alla constatazione dell'esistenza di quel violino, come se fosse un oggetto per lui perso nella leggenda.
Il violinista che ha conosciuto lo sconosciuto. Lo ha prima stupito ed ammaliato per la maestria nell'uso dello strumento, poi gli ha raccontato la sua vita e come è stato possibile che un musicista così valente sia finito a raccogliere spiccioli esibendosi nelle birrerie. Questa storia meriterebbe di essere scritta da parte dello sconosciuto, che è uno scrittore, ma che ha difficoltà a raccapezzarcisi.
L'amico del violinista, quello bravo tanto quanto il violinista. Si conosco nella scuola dei musicisti, quella che insegna la disciplina della musica e ruba l'arte alla musica. I due sono praticamente inconfondibili, un'affinità elettiva che li fa duettare e riconoscersi reciprocamente come se fossero fratelli di musica, quella alta, anche se provengono da condizioni sociali e familiari assai differenti.
Nel libro si percorrono e rincorrono rivoli che fuoriescono dai filoni maestri e che ne arricchiscono il misterioso progredire. C'è l'amore e l'amicizia nella musica, un legame talmente stretto che può manifestarsi anche con inattese distorsioni ed improvvise variazioni. C'è la povertà di chi non conosce l'arte della musica e la ricchezza di chi ne può godere appieno. C'è la bellezza della donna che ti bacia perché tu devi continuare a suonare così bene, come hai fatto ora, e per sempre prima che lei si perda e che tu la perda, tranne che nei tuoi sognanti ricordi. C'è la bontà dell'uomo che sa di non poter essere come se fosse il padre naturale, ma che ama talmente la madre che non può fare a meno di amarne anche il figlio essendo questo parte dell'amata. E poi c'è il canone inverso, quell'incrociarsi e duettare in contrapposizione. Un duello infinito di due anime che potrebbero essere una sola anima in due corpi distinti o un solo corpo con due anime distanti che si riconoscono nell'arte della musica.
Perdere l'arte significa perdere tutto, la storia, la vita, la ragione.
Autore: Matteo Saudino
Giudizio: ****
La ribellione non è una filosofia, ma la filosofia è una continua ribellione. A supporto di questa affermazione chiedo aiuto ad Arthur Schopenhauer. Questi non è presente tra i "filosofi ribelli", ma sintetizza splendidamente ciò che credo sia la ribellione che è nell'arte della ricerca della verità attraverso la filosofia: "Ogni verità passa attraverso tre fasi: all’inizio è ridicolizzata, poi è violentemente contrastata, infine la si accetta come evidente." Mi scuso se la citazione non è precisa, ma non sono riuscito a trovare il volume dove la lessi anni orsono.
Senza la tensione alla ribellione come elemento necessario al pensiero filosofico, la filosofia non sarebbe quello che è: ricerca di verità progressive, in un percorso accidentato e che, per certi versi, si può anche rivelare fallace nel lungo periodo, ma che impedisce all'umanità di rimanere impantanata in una verità immutabile e precostituita fatta di credenze e pregiudizi. L'atto di fare filosofia è un percorso per una ribellione permanente per tendere ad una verità più profonda?, più adeguata?, più vera? quando sarà avvistata all'orizzonte. Non c'è fine al fare filosofia se vogliamo rimanere umani, anche se è luogo comune chiedere "a cosa serve la filosofia?" per rispondere "a nulla".
È una strada difficile, ma intrigante e senza sosta ed in questo libro l'autore raccoglie alcuni esempi di ribellione attraverso il pensiero, lo studio, la conoscenza. In alcuni casi queste ribellioni conducono alla morte (Ipazia e Olympe de Gouges, entrambe donne e forse non è casuale), in altri casi portano all'esclusione per rendere marginale il pensiero di cui il filosofo è portatore (Epicuro, Spinoza, Marx), in altri casi, nell'impossibilità intima dell'abiura, costringono il filosofo alla fuga (Protagora, grande tra i sofisti, termine che nell'odierno uso comune porta discredito su colui che viene additato come tale), ovvero alla propria forza morale (Kant) che risponde attraverso la sua filosofia senza nulla dover aggiungere. Ognuno di questi "ribelli del pensare", a partire dal più antico Anassimandro, entra in qualche modo in contrasto con il potere, politico o religioso che sia, per quanto scrive e proclama. Il potere percepisce questo come atto di sovvertimento della norma e per questo da normalizzare. Non è semplice anticonformismo, o moda, è qualcosa di più radicato, è la ricerca di una verità più profonda alla quale la norma, che resta in superficie, non sa dare risposte.
Sono certo che Schopenhauer, che amava più gli animali che gli uomini, direbbe che queste sono banalità umane, ma Matteo Saudino tiene aperta quella porta necessaria per cui in ogni tempo dell'esistenza di questa terra la filosofia ha saputo ricercare e trovare una via saggia da percorrere. Semmai, troppo spesso, l'errore è stato non percorrere quella strada, ma attardarsi sulle false verità figlie di interessi umani, troppo umani.
Autore: Emanuele Trevi
Giudizio: ****
Tre vite al prezzo di due, ma non è un saldo, è la magia dell'amicizia. Quell'amicizia che si fa sentire lungo tutto il volume. Chi scrive racconta cosa sono le prime due persone per lui. Il racconto delle vite appare quasi incidentale perché prima delle vite, evocate nel titolo, ci sono le passioni, le delusioni, le frustrazioni, le certezze, le preoccupazioni, l'allegria, i caratteri. Insomma prima delle vite appaiono le persone per quello che sono per l'autore, amica ed amico. Lei che trova il modo di essere ponte tra i due maschi ed i due che lo sanno, l'uno più intransigente e l'altro apparentemente più indulgente. Sono persone raccontate da un punto di osservazione privilegiato che, credo, sia percepito in tale modo solo nel momento in cui l'autore decide di raccontare le due vite. La normalità delle amicizie intime di coloro che si raccontano tutto, a voce o per posta, distanti a tratti, non solo fisicamente, ma senza mai lasciare che i rapporti siano logorati a tal punto da spezzarsi.
L'amicizia è il valore supremo ed inestinguibile. Credo che l'autore l'abbia voluto custodire in questo piccolo volume perché non se ne perda la memoria.
Autore: Stefano Scrima
Giudizio: ***
Ogni riferimento al gatto, del quale l'autore è devoto servo e padrone, è puramente causale, cioè il gatto è la colpa di tutto. Non può essere un caso la raffigurazione del gatto nero in copertina che riporta, non al mai troppo rivalutato Edgar Allan Poe, ma agli ammennicoli tipici della tradizione fatalista e scaramantica che seduce da sempre gli italiani. Un altro filosofo, tale Benedetto Croce, credo disse "Non è vero, ma ci credo" a marcare una personale metafisica di ogni italiano. In tutto ciò mi sono fatto quest'idea secondo la quale solo un gatto può essere complice e mentore di tanto agire felino.
Aprendo il libretto a caso leggo la frase
"La neve è la manna dei pigri."
e poi, sempre a caso, mi imbatto in
"Nascere: prima causa di morte."
e infine, scorrendo poche pagine oltre, trovo l'epifanico
"Possiamo anche esistere, ma poi bisogna vivere."
Per questo appare evidente che sette vite non possono bastare e nemmeno si può sperare di barattarle con esso, quello che le detiene per antonomasia: il gatto.
Mentre nei precedenti libri ero riuscito a trovare autonomamente un'ipotetica chiave di lettura, il senso più o meno profondo dell'opera (magari sbagliando, però avevo fatto tutto da solo) in questo caso mi sono lasciato fuorviare da un micro dialogo avuto con Stefano Scrima. In quel frangente l'autore mi indicava lo scaffale dei libri inutili come luogo dove recuperare il testo in libreria. La cosa sorprendente è che aveva torto, ma nel senso peggiore dei termini: la filosofia è materia sommamente inutile, talmente inutile che nella mia libreria nemmeno lo avevano questo libro. Così con sprezzo del pericolo, e della reputazione, l'ho ordinato. Nessuno però me lo ha segnalato come testo potenzialmente inutile e, dopo pochi giorni, l'ho letto in pochi minuti.
Per quanto impegno metta un autore nel cercare l'inutilità, non può mai dare per scontato il risultato. Questo resta più nelle pupille e sinapsi del lettore che nelle mani del libraio. Personalmente posso scrivere una cosa che avrebbe potuto dire Benedetto Croce, non di Napoli, ma per tanti anni lì residente: accattatevillo! Il libro, non il gatto.
Autori: Andrea Colamedici e Maura Gancitano
Giudizio: ***
Il primo avvertimento si trova nel risvolto di copertina (è un manuale, ma quanto di più lontano da un manuale) e poi il primo capitolo è intitolato FINE. Cosa ci si deve attendere?
Innanzi tutto un "libro game" che ti consente di leggerlo a "salti" scegliendo ad ogni fine capitolo la via che ritieni più utile?, interessante?, attinente? Scegli tu come far proseguire il viaggio. Ma il libro può essere letto anche in modo lineare, come se fosse un libro "normale", nel corso della cui lettura ti vengono proposti esercizi utili ad introiettare e metabolizzare quanto appena letto.
Puoi, non devi, costruire un "diario di bordo", sarà testimonianza della navigazione all'interno di questo manuale, e diventa compendio personale dell'esperienza una volta terminata. Terminata? Avrà poi davvero fine così come ci viene indicato al capitolo uno? Forse...
Ognuno costruirà una memoria di viaggio personale, come è giusto che sia, nel quale il paesaggio, gli ambienti, le strade che si percorrono sono uguali per tutti, ma le percezioni e le scelte differiscono tra un individuo ed un altro. Non esiste un modo giusto per scegliere il tragitto e per percorrerlo (in bicicletta?, in auto?, in poltrona?), ma esiste la possibilità di farlo in modo consapevole.
Prendila con filosofia è una frase che nel gergo comune assume un tono consolatorio. Hai lavato la macchina e la mattina stessa piove? Prendila con filosofia! Eri in coda per prenotare un biglietto di uno spettacolo imperdibile e chiudono gli accessi fermandosi alla persona che ti precede? Prendila con filosofia! Ami una persona che non ti ama? Prendila con filosofia! Questo manuale aiuta a valutare ed analizzare in modo più compiuto quello che ti succede, quello che ti riguarda ed a farne scaturire una reazione adeguata alla situazione data. Piove e resteranno gli aloni sulla macchina dove hai passato lo straccio con tanta fatica? Però gli animaletti che si erano annidati negli anfratti più remoti nell'interno dell'auto era giusto collocarli altrove. Non potrò assistere allo spettacolo, ma poi, sono sicuro che volessi realmente vedere io quello spettacolo, oppure ho traslato su di me il desiderio dell'amico, dell'amico, dell'amico di Gigi che mi ha detto che quello spettacolo era imperdibile? Io la amo e lei non mi ama, ma se io la amo voglio il suo bene e non solo il mio bene quindi spero che lei sia felice e così anche io sarò felice.
In questo libro non si scrive di sistemi filosofici, ma si scrive di consapevolezza, di felicità, di desideri, di obiettivi, di valori, di ansie, di fragilità. In una parola si scrive della vita e di come si possa affrontare con filosofia accompagnata dalle meraviglie di una fioritura personale.
Buona fioritura a tutte e tutti.
Autore: Jorge Luis Borges
Giudizio: *****
Questa è una raccolta di racconti che offrono al lettore la compagnia di ciò che è fantastico, letteralmente. Scritto altrimenti, questa è una fantastica raccolta di racconti che accompagnano il lettore lungo le strade della fantasia. Quest'ultima è circolare e si rispecchia, infinita, nell'infinito.
Nei racconti affiorano temi ricorrenti come l'infinito, appunto, il sogno, il mito, il superamento del tempo e dello spazio, l'io e l'altro, il dono, la mimetizzazione, l'orribile. Quest'ultimo è il libro infinito, che dà il titolo alla raccolta stessa, del quale non si può vedere né la prima né l'ultima pagina, ma nemmeno l'ordine delle pagine stesse che mutano ad ogni occasione nella quale vengono sfogliate. Nessuno sarà in grado di rileggere la stessa pagina, di leggere lo stesso libro. La salvezza al turbamento di tale caos sta nella sicurezza che si trova negli scaffali di una libreria.
Rivedere sé stesso, più giovane, o più vecchio, rende difficile la conversazione: l'uno e l'altro, consapevole o inconsapevole, sa cosa attendersi da sé stesso anche se l'altro è giovanissimo, oppure sul letto di morte. Ricevere in dono la memoria di Shakespeare ed accorgersi che questa non è quella che si sperava fosse. Organizzare un attentato nella solitudine più assoluta che salverà chiunque dall'essere accusato di complicità. Rendersi parte di un Parlamento che ha l'obiettivo di farsi carico di rappresentare tutti gli interessi mondani. Cercare una tigre azzurra e per questo oltrepassare le superstizioni locali spingendosi in un luogo vietato trovando pietre che si moltiplicano incontrollate ed incontrollabili.
Quello che non può essere trova gli spazi angusti, ma suggestivi, che riserviamo ad ogni panorama che possiamo ammirare solo in cartolina. È comunque una vera fortuna.
Autore: Carlo Rovelli
Giudizio: ****
È suggestivo considerare come il comune sentire possa essere il comune sbagliare che, solo in quanto comune, riteniamo erroneamente corretto. Il mal comune che diventa gaudio e nemmeno dimezzato.
In questo libro il lettore viene guidato in un viaggio impensabile che conduce alla negazione di un concetto comune a tutti: il tempo. Quel tempo che ci accompagna da sempre e per sempre fino a che ognuno di noi ne esplorerà la sua fine.
Nel corso di questo affascinante tragitto viene strattonato il concetto di tempo fino a negarne l'esistenza, almeno nell'accezione ingenua, o romantica che noi abbiamo: i bei tempi passati, la fatica e l'affanno del presente, l'indicibilità sul futuro.
Le nostre ingenuità sono ragionevoli approssimazioni volte a razionalizzare il "quando siamo" senza condannarci ad una eterna incollocabilità temporale perché ieri non può essere oggi e men che meno domani, ma nemmeno il presente può essere se mi riferisco a quanto ho scritto tre righe sopra perché ora è già passato. L'autore ci immerge in un fiume di "congetture" fisiche e filosofiche, tentativi di definizione che attraversano per secoli le menti più brillanti dell'umanità arrivando però ad un punto non conclusivo, ma ineludibile: il tempo, come lo pensiamo noi, non esiste. È una questione di "punti di vista" e non di quelli enunciati al bar o dall'acconciatore: "io credo che il tempo esista perché 20 anni fa non avevo i capelli bianchi ed oggi ho un ciuffo candido". Il punto di vista, o di osservazione, è oggettivazione di ciò che muta al mutare del luogo in cui si trova l'osservatore. Qui si racconta di come il tempo potrebbe non essere una variabile in gioco nella grande equazione che descrive l'universo (questa frase è una mia inferenza per non ricorrere al "rifugio" fornito dalla possibile entità creatrice che, se mai ci fosse, avrebbe sancito la veridicità di quell'equazione se volesse consentirci di formalizzarla nel modo scientifico a noi noto). Infatti lo scorrere del tempo muta a seconda della distanza che l'osservatore ha dalla massa, o della velocità a cui lo stesso osservatore si muove nello spazio. Poi il tempo non è un "continuo", è discreto, un tappeto granulare che non può essere rappresentato da una linea continua composta dagli infiniti numeri reali. Queste affermazioni sono una sfida che sconfigge il senso comune che assegna al tempo un'immutabilità universale che, seppure priva di una teorizzazione conclusiva, ci lascia increduli di fronte ai paradossi che sovvertono una cosa per noi totalmente scontata. È già successo quando abbiamo capito che non era il sole che girava intorno a noi, anche se resta evidente che il sole sorge e tramonta, e succederà ancora per il tempo. Anzi, è già successo, ma ancora non sappiamo spiegarlo in modo compiuto.
Questo avrà implicazioni sulle nostre vite terrene? Non credo, in fondo la vita terrena ha continuato nella sua forma anche con la consapevolezza che era la terra a gravitare intorno al sole e non il contrario. La ragionevole approssimazione per cui è il tempo a scandire le nostre vite dalla nascita alla morte non verrà inficiata da una più precisa definizione secondo la quale il "tempo vero" è una cosa assai diversa dal riconoscerci invecchiati, con una memoria individuale del tempo trascorso, perché quest'ultima condizione persisterà.
Autore: Alan Bennett
Giudizio: ***
Quello che può succedere, quando si dice l'indicibile ed al tempo stesso non si dice l'indicibile, è indicibile e l'indicibile varia da persona a persona. È sorprendente come di fronte ad esso le reazioni siano molto diverse.
Anni '80 del secolo scorso. La scuola è terminata con successo da più o meno brillanti studenti che ora devono prepararsi all'esame di ammissione all'università. Parliamo delle possibilità di accedere a borse di studio delle più prestigiose università d'Inghilterra. Per il preside, orgoglioso ed al tempo stesso preoccupato dal limitato potenziale umano messo in campo dalla scuola che dirige, è necessario avviare un percorso di allenamento che, se fruttuoso, potrebbe dare lustro alla sua scuola. Per traslato anche a lui perché, non va detto, ma l'ambizione è umana sventura.
Per questo, oltre ai docenti ordinari, viene ingaggiato un "enfant prodige", giovane, fresco, accattivante che possa condurre "alla vittoria" la squadra degli studenti affiancando le sue capacità didattiche alle stantie pratiche del vecchio professore. Il compito del giovane insegnante è preparare gli studenti alla "performance" dell'esame e non ai contenuti dell'esame. La commissione va stupita, bisogna evitare di gettarla nella noia del "già visto e già sentito venti volte nella sessione odierna". Bisogna creare connessioni sorprendenti al limite del "ma non è vero", purché si resti nel plausibile. Insomma che uno strafalcione non sia tale perché non c'è prova che lo sia, anche se contrasta con la comune morale. Sarà ben altro che una commissione di professori a riportare ordine in proposito.
Questo approccio sorprende gli studenti abituati al rigore ed alla severità, letterale, del vecchio professore. Studiare brani a memoria è il loro pane quotidiano, anche se faticano a comprenderne l'utilità, che contrasta e li mette a disagio di fronte al nuovo approccio. Non sanno distinguere quale sia la strada per arrivare alla meta.
Del resto il vecchio professore, di suo, ha dato ampia dimostrazione di comportamenti che dovrebbero mettere a disagio. Quel suo "alzare le mani" dovrebbe apparire ben più grave rispetto al blandire con effetti speciali la commissione. Certamente lo è per il preside quando ne viene a conoscenza senza pensare che il modo in cui lo viene a sapere dovrebbe turbare personalmente anche lui, andando ben oltre l'orizzonte che vede di fronte ai suoi occhi: liberarsi del vecchio ed affidare tutto al giovane.
È così che le cose vanno, tra buoni propositi e cattive coscienze, non senza la tragedia che è inevitabile quando riguarda gli esseri umani.
Autore: Mauro Bonazzi
Giudizio: ***
Il titolo è tanto suggestivo che, nell'immediato, non si coglie la continuità con la più famosa frase "cogito ergo sum". Indica la certezza indubitabile che l'essere umano ha di sé in quanto soggetto dubitante. Un affascinante paradosso. Senza timore di essere smentito, smentita alla quale il pensare inevitabilmente conduce, dubitare è, se così si può dire, sottoinsieme del pensare e non cosa disgiunta o esterna all'atto che ci rende esseri umani, animali diversi tra gli animali. Questa diversità risiede nella capacità di essere gli unici in grado di porsi domande e di cercare di dare loro risposte. Questa è la bellezza della filosofia, interrogarsi in modo tutt'altro che sterile, ma fecondo, sorprendente, illuminante anche se parziale, impreciso, emendabile. A torto o a ragione si cerca il torto e la ragione.
Queste brevi lezioni sono piccoli momenti di grandi risposte a questioni che ci riguardano direttamente, consapevolmente o inconsapevolmente. A volte possono essere "scappatoie" per giustificare quanto non saremmo in grado di giustificare altrimenti, altre volte sono arcigni molossi oltre ai quali non potremmo avanzare un solo passo senza rischiare il morso del cane posto a guardia di quella verità. Quest'ultima non rivelata, ma pensata, quando non escogitata (la via di fuga di cui sopra, tanto più efficace quanto più elegante). La ricerca della verità resta il nodo intorno al quale ruotano, appunto, i nostri dubbi. Possiamo vivere senza Dio? Il nulla esiste anche se non è? Prima l'uovo o la gallina? Possono esistere cose che non sappiamo immaginare? E come le possiamo descrivere se ci mancano le parole per farlo?
In queste pagine accarezziamo concetti quali la felicità, la bellezza, l'esistenza, la società, la scienza, la politica, l'amore ed infine il nostro essere finiti in un universo infinito. Che poi, sarà davvero solo uno?
Autore: Gianrico Carofiglio
Giudizio: ***
Un errore nella vita segna la vita. Anche se la colpa dell'errore non è tutta tua, anche se quella colpa ricade in qualche modo solo su di te, l'errore, per parte tua, lo hai comunque commesso. La vita segnata resta la tua vita e tutto sfuma dentro questa nuova esistenza.
Penelope ex PM, ora investigatrice privata informale, cerca di far convivere il prima ed il dopo tra giusto e sbagliato. Alimentazione sana ed attività sportiva abbinate a troppo fumo ed alcol. E uomini da scaricare all'alba di una notte da dimenticare il più in fretta possibile.
Fino a che un vecchio amico indirizza nel suo studio, un retro bar di un altro amico, un uomo che ha subito un'ingiustizia. Apparentemente è solo una questione di forma che non potrà arrecare danni a questo uomo. Per l'uomo, però, la forma è sostanza quando la figlia vorrà sapere, quando la figlia cercherà di capire. Voler sapere, cercare di capire è una forma di disciplina alla quale Penelope si è addestrata ed è questo che solletica il suo ingegno. Il lavoro che ne seguirà è un impegno a dir il vero fortunoso. L'evoluzione dell'indagine ha un profilo molto basso e Penelope ne è pienamente consapevole. Tanto consapevole che non ha saputo quantificare il suo prezzo al committente. Tutto però scorre verso la soluzione grazie a due intuizioni folgoranti che fanno la differenza e la faranno venire a capo di un errore che già ha segnato e segnerà per sempre la vita di un'altra persona.
Autore: Andrea Vitali
Giudizio: ***
L'amore è cieco, ma pure sordo. In entrambi i casi è comunque amore interessato, seppure non nell'accezione comune che diamo a questa locuzione. L'interesse, in questo frangente, non sta nella ricchezza, dalla quale discendono le varianti di lusso, fama e potere. L'interesse sta nei malleoli di lei, i più belli che siano mai stati visti, oltre al fondo schiena, scelta anatomica che riporta questa vicenda nell'alveo dell'immaginario collettivo maschile, assegnando alla storia un tono meno eccentrico.
Lui non sa il nome di lei, ma già la ama. Lui viene dimenticato da lei ed ancora la ama. Lui inizia a conoscerla eppure persiste nell'amore. Così il protagonista trascorre un'estate, e poi l'autunno, e poi l'inverno, tra fragili speranza e strategie di corteggiamento deluse. Escogita piani amorosi che al momento opportuno si dimostrano inefficaci, peggio, disastrosi! Almeno fino a quando succede che ... e quello che succede è un disvelamento sorprendente. Una scialuppa di salvataggio che giunge all'ultimo momento e che condurrà ad un finale, in un graduale crescendo, guidato da una corrente che resta incontrollabile e quindi affrontata con tutte le cautele del caso. C'est l'amour! Per certi aspetti l'epilogo appare ragionevole anche se l'amore procede per imperscrutabili omissioni ed ammissioni, per altri versi apparentemente irragionevole, ma già scritto nell'incipit del racconto. Non è anatomia, ma metafisica dell'amore, nonostante tutto e grazie a tutto.
Autore: ZeroCalcare
Giudizio: *****
Grazie ai potenti mezzi messi a disposizione da moglie e figlia ho avuto l’opportunità di vedere “Strappare lungo i bordi”. Io, tardivo tra i tardivi, senza il clamore suscitato dall’effetto “tifo da stadio” che ha accolto questo lavoro, forse non lo avrei visto. Ora, però, posso dire che sarebbe stato un peccato perché la visione mi è piaciuta assai, nonostante la bolgia in cui anche io ed il mio armadillo (tutti abbiamo un armadillo che s’accolla) ci ritroviamo incastrati. Ammiratori e detrattori, come sempre, costituiscono gli estremi più caotici e visibili (chiedere, tra gli altri, a Bob Dylan per la svolta elettrica e per il premio Nobel), ma, per mia fortuna, io gioco in campo neutro, né l’uno né l’altro, eppure non super partes e capirete.
Anche per questo non sento la necessità di dover giustificare il mio apprezzamento né, tanto meno, dover rispondere alle critiche che ho letto qua e là. Sento invece l’opportunità di esprimere un mio giudizio, discutibile e disprezzabile come ogni questione perché, va detto per correttezza, al Barolo ed al Chianti io preferisco una birra chiara ed al piatto culinario servito su un “letto di qualcosa” io preferisco una pizza margherita.
Il lavoro di ZeroCalcare mi sembra un’ottima fotografia, nitida, necessaria, per nulla commercialmente ammiccante e ruffiana. Non mi riferisco a questioni tecniche, delle quali non saprei che scrivere, mi riferisco all’universo che rappresenta. Quell’universo che chiaramente non è, e non vuole essere, esaustivo, ma che esiste in questo Paese. L’autore lo fa con tutte le tribolazioni, dubbi, incertezze di chi ha qualcosa da raccontare, ma non sa se quella cosa da raccontare avrà la dignità di storia. Ecco il mio giudizio è questo, ZeroCalcare ha detto qualcosa a modo suo, per quanto attorcigliato e confuso, ha detto cose che troppo spesso non sentiamo. Io credo che abbia raccontato una storia dove amicizia, disagio, passione, inadeguatezza, sofferenza, gratitudine e leggerezza trovano gli spazi che troppo spesso mancano. Nella storia dell’autore questi spazi ci sono tutti.
Io non so se ZeroCalcare sia l’ultimo degli intellettuali, per certo ci ha offerto prospettive per nulla marginali e secondarie. È importante che persone che hanno cose da dire, nel modo e nelle forme più varie, lo facciano ed è pure importante che su queste storie, e su chi le ha create, si apra un dibattito. Solo in questo modo si scoprirà chi non ha nulla da dire e si aggrappa all’effetto commercial-mediatico del successo di questo o quell’altro senza impiegare nemmeno un attimo per riflettere del perché questa storia è oggi una fotografia istantanea che supera in qualità tanta letteratura quotidiana dispersa in una società che esiste solo sui giornali stessi e che viviamo spesso a nostra insaputa: toh, ma chi lo avrebbe detto che a quarant’anni ci sono ancora lavoratori precari nella vita vera, quella dove pagano bollette, affitti e cercano di trovare pace tra le mille contraddizioni a cui sono sottoposti? Tu guarda il caso...
P.S.: nella mia città i pischelli li chiamiamo cinni e, chissà com’è, credo che anche i cinni modenesi abbiano tante cose da dire, anche se non parlano più il dialetto.
Autore: Stefano Scrima
Giudizio: ***
Il soffrire caratterizza le umane esistenze fin da quando un'entità ultraterrena scacciò uomo e donna dal paradiso terrestre: il primo avrebbe dovuto faticare a causa del lavoro, mentre la seconda avrebbe partorito con dolore. La grave colpa dei nostri progenitori era aver mangiato una mela dall'albero della conoscenza e del male, o almeno così mi par di ricordare che l'albero sia stato chiamato. Detto tra noi, questo contraddice il famoso detto popolare secondo il quale "una mela al giorno toglie il medico di torno" ed al contempo dimostra come il popolo, per quanto saggio, è comunque fallace. Da questa contraddizione non se ne può venire a capo è chiaramente uno stallo messicano.
Chi invece non crede nell'esistenza di questa entità ultraterrena che non oso nominare, ma tutti voi 25 lettori sapete benissimo a chi mi riferisco, anche se non ci credete, può constatare empiricamente che la vita è fatica e sofferenza e che tali condizioni possono indurre alla malinconia se è vero, come è vero, che la vita è un pendolo che oscilla tra dolore e noia. Schopenhauer non credo facesse riferimento alla provvida sventura, ma alla volontà di vivere comunque nonostante la vita e non grazie alla vita.
Ebbene nel libro non si parla di tutto ciò o per lo meno non si riconduce la malinconia, o noia, o sofferenza al peccato originale ed alla natura matrigna foriera di dolore e sofferenza. Si raccolgono i presupposti, gli effetti che ne conseguono e conducono gli esseri umani ad una vita che per periodi più o meno lunghi può manifestarsi come malinconica.
Perché, va detto qui e non altrove, tutti abbiamo attraversato momenti di malinconia. La malinconia può essere indotta dalla noia, anche se è altra cosa, la noia è un sottoinsieme della malinconia. La malinconia può essere indotta dal rifiuto della realtà che ci circonda e ci scontenta e ci sovrasta e ci rende per questo tristi e malinconici. La malinconia può essere indotta dalla battaglia interna che combattiamo quotidianamente per essere all'altezza di ciò che vorremmo fare e non riusciamo a realizzare. La malinconia può essere indotta da un dolore d'amore, dalla perdita di una persona cara o dalla sua sofferenza. La malinconia può essere indotta dal ricordo di un bel tempo passato che non potrà essere più. La malinconia può essere indotta senza che vi siano fattori esterni, ma una sorta di particolare sensibilità che predispone l'essere umano alla malinconia.
La malinconia succede, ad essa siamo tutti esposti. I più fortunati o bravi, nel senso di dotati di una sensibilità ed un talento fuori dal comune, dalla malinconia sanno trarre il meglio di loro. Vivono la loro vita anche grazie alla malinconia. I più fragili, invece, subiscono la malinconia esprimendo attraverso quel sentimento l'inadeguatezza alla vita. Questi vivono la vita nonostante la malinconia che, a volte, conduce all'atto estremo. Quello che Schopenhauer condanna come atto di sottomissione al sopraggiungere della volontà di morire, volontà alla quale dovremmo reagire. Purtroppo non tutti riescono a trovare le risorse necessarie nel proprio animo per vivere nonostante tutto. Per questi il pendolo smette di oscillare e passano il testimone a chi resta malinconico per non aver capito, oppure per aver capito, ma per non aver saputo intervenire.
Autore: Jay McInerney
Giudizio: ***
Le sorprese della vita non sono frutto del caso, ma spesso di cattive valutazioni, soprattutto se lei è una bella ragazza e tu la conosci in un bar. Diffidare sempre dei bar, ma soprattutto delle
belle ragazze.
Quello che succede al protagonista di questo romanzo segue in modo quasi lineare l'errore commesso all'inizio che trasforma tutto in una valanga inarrestabile e lo trascina dove solo un paio di anni prima non avrebbe mai creduto di poter giungere. Il racconto, in prima persona, descrive questa tumultuosa discesa, tanto furiosa quanto inevitabile ed alla fine attesa, prodotta dal disastro affettivo ed emotivo del protagonista del quale non sapremo mai il nome. L'amico delle scorribande notturne lo chiama "capo", ma è evidente che a comandare è l'amico e non il protagonista che lavora al reparto verifica dei fatti di una rivista newyorkese che, più che un giornale, è un'istituzione. Il ruolo occupato al momento non è di prestigio, ma lascia spazio a prospettive luminose. Questo è il sogno del padre, sogno che però si sgretola tra le mani del protagonista quando la vita notturna gli impedisce di tenere ordine e disciplina nella vita diurna. Una persona apparentemente con la testa sul collo, colta, brillante che sbanda laddove non lo credeva possibile e perde di vista tutto, anche le sue aspirazioni, accecato forse dalle troppe luci alle quali ha pensato di poter ambire. Tante luci e troppo vicine.
Sono diverse le situazioni evocative di un testa coda esistenziale irrecuperabile che conducono il nostro in situazioni divertenti ed al tempo stesso struggenti. Ne sono protagonisti l'amico di
scorribande Tad, il fratellone Michael, seppure più piccolo di un anno, il furetto "Fred" ed un collega veterano del giornale, ma ormai perso nei fumi dell'alcol, la collega Megan, quella che ha
sempre tifato per lui ed alla quale lui non è riuscito nemmeno a dire grazie senza rendersi sgradevole. Oltre naturalmente alla bella ragazza conosciuta in un bar di Kansas City, Amanda.
La parabola del frastuono che ha colpito la vita del protagonista trova un momento di ristoro per nulla effimero quando il ricordo dolce e struggente lo induce ad un baratto insolito: i suoi occhiali da sole Ray-Ban valgon bene un sacchetto di pane caldo appena sfornato. In questo ricordo, indotto dall'odore di pane appena sfornato e che accomuna la parte bella e la parte brutta della sua vita, si cela la consapevolezza che non sempre conosciamo a fondo chi ci sta vicino, per quanto essi ci siano cari. Alla fine, nonostante tutto, chi merita il nostro amore o la nostra amicizia riusciamo a comprenderlo anche grazie ad una semplice, inutile frase: "Come ti va?"
Autore: Sandor Marai
Giudizio: ****
Questo è un racconto "ipnotico" che aggancia gli occhi del lettore attraverso la semplicità della nuda vicenda, quella che non dovrà essere perché sarebbe impossibile che fosse. Ogni attore della storia è certo che non potrà accadere di nuovo quanto già accaduto. Tutti sono pronti, ognuno con motivazioni proprie, ad essere all'altezza della situazione, ora che sanno, ora che, chi più, chi meno, tutti sono rimasti scottati. Tutti pronti tranne lei, Eszter, la più colpita di tutti che, in cuor suo, sa già che si ripeterà tutto come allora. Lei è rimasta ferma su quelle parole che non hanno avuto il seguito promesso. Per anni quelle parole hanno alimentato in cuor suo vane speranze, al tempo stesso anelate e negate.
Eszter non è più giovane. La vita le ha riservato amarezze profonde, a partire dal matrimonio tra la sorella maggiore, Vilma, ed il suo amato Lajos, portato nella casa di famiglia dal fratello Laci di cui Lajos era caro amico. Lajos ha avuto la forza e l'abilità di convincere tutti delle sue capacità fuori dal comune, ma in verità inesistenti. Una persona in grado di mentire con tutti e su tutto, anche sulle cose più profonde: l'amicizia e l'amore. A suo modo una persona fuori dal comune alla quale Eszter è rimasta profondamente legata anche se non lo vede da venti anni. Finché non arriva un telegramma nel quale Lajos annuncia il suo ritorno che alimenta timori ed aspettative. Eszter è incapace di sciogliere il nodo che li avrebbe potuti legare per la vita e che invece ha ancorata solo lei a ricordi controversi che non le danno la forza di reagire ad una nuova situazione nella quale si trova suo malgrado.
Autore: Albert Camus
Giudizio: ****
La caduta è tutta nel monologo dell'avvocato Jean-Baptiste Clamence che, con garbo e dovizia di deduzioni e contro deduzioni, traccia ad un interlocutore che lo ascolta, rapito, la sua parabola di vita. Un uomo amabile che sa come farsi amare, almeno all'inizio.
È un avvocato assai capace di Parigi, tanto capace che è molto ricercato e sempre pronto ad aiutare il prossimo in difficoltà. Questo gli viene naturale perché gli procura piacere. Lui è il più dotto tra i dottori, certamente il più gentile ed amato, ma non per altruismo, bensì per egoismo. Infatti ottenere la riconoscenza altrui è la cosa che lo gratifica maggiormente in un mondo dove solo lui, e non certo i giudici, è in grado di discernere, ma senza giudicare.
Nel racconto emerge come questo piacere, descritto come assillante necessità personale, sia solo una maschera, molto gradevole per lui, forse patologicamente necessaria, certamente non corrispondente alla persona che è in realtà. Infatti in privato è un uomo dedito ai piaceri dell'alcol e delle donne. Queste ultime sono solo oggetti di piacere per le quali non prova alcun sentimento, come se anch'esse fossero semplici bottiglie da svuotare. Non riesce ad innamorarsi perché lui ama solo sé stesso. Attrae le donne e poi, dopo averle sedotte, le abbandona. L'unica per la quale pensa di aver provato qualcosa è quella che lui lascia senza che lei tenti di opporsi. Ma forse non è amore, è semplice rimpianto per non aver aiutato la più debole.
Poi accadono due fatti ancora più significativi, cruciali. Il primo è inspiegabile, una risata che lui sente, senza comprenderne la provenienza, e non sa spiegare se tale riso è per lui o per la sua vita bugiarda. L'altro riguarda una giovane donna che l'avvocato non aiuta, forse perché nemmeno percepisce la gravità della situazione. Clamence sta percorrendo un ponte della Senna, vede la ragazza affacciarsi dal ponte, la supera e, preso dai suoi pensieri, arriva all'altra sponda e sente il tonfo di un corpo cadere nel fiume. Ormai nulla si può fare per la giovane.
Resosi conto dell'insostenibilità della doppiezza della sua vita e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, al bar Mexico City, dove può proseguire a condurre una vita dissoluta tra alcol e prostitute senza alcuna necessità di finzione. In questo gorgo infinito che lo trascina sempre più in basso diventa il giudice-penitente. Confessa a chiunque le proprie colpe con l'obiettivo di indurre l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: accusando sé stesso tenta di rendere colpevole l'umanità intera. Ma ormai è troppo tardi per quello che poteva essere amore e non è stato, per quella vita che poteva essere salvata e non è stata salvata. Nemmeno nel finale si scorge un barlume di redenzione: pensa che fatica sarebbe stata e poi quanto è fredda l'acqua.
Autore: Ugo Cornia
Giudizio: ***
Non è facile catalogare le vite, incasellarle assegnando a loro un punto di classificazione inequivocabile, tanto rigido e preciso da non consentire alle vite stesse di debordare perché enormi, di tracimare perché liquide, di ricollocarsi perché "stanche" dello scaffale nel quale sono state inserite. Per scelta in questo libro si racconta una vita intera senza catalogarla e rievocando i pezzi più importanti?, più significativi?, più divertenti? Non so rispondere a queste domande, anche se, senza voler dire ciò che non so, posso azzardare che in questa raccolta di ricordi tutti i pezzi messi insieme hanno un significato sentimentale prima che letterale, seppur sia stato scelto l'ordine per antonomasia delle lettere, l'alfabeto.
In questo libro si legge una vita raccontata per fatti, cose, persone che hanno a qualche titolo fatto parte della storia dell'autore. Scritta così pare un'ovvietà, ma le singole tracce, a loro modo semplici ed esaustive per quanto l'autore ha voluto raccontare, potrebbero ridursi ad aneddoti. Questo rischio non mi pare mai realmente corso perché brevi divagazioni, apparentemente fuori fuoco, aiutano paradossalmente a centrare il punto da raccontare senza isolarlo nel posto in cui appare. Ogni vicenda diventa parte della biografia quando si unisce, magari in modo sghembo, a tutte le altre.
L'autore ci racconta che il libro nasce da un'intuizione felice (da intendersi nel senso del benessere che ha dato all'autore scriverla e non nell'abusata accezione di successo che arriverà, se arriverà, a cui siamo abituati associare questa locuzione), nonostante il periodo della pandemia ed il lockdown. L'idea del dizionario ragionato è precedente, ma del resto è solo una convenzione ritenere che una biografia risulti più rappresentativa se segue la linea temporale che ne scandisce gli eventi invece di adottare un altro ordine, non meno logico, ma alternativo alla scelta del tempo.
Diversi elementi ricorrenti ci accompagnano dall'inizio alla fine.
L'automobile, archetipo della modernità e del movimento, in queste pagine è descritta ferma, parcheggiata, oppure abbandonata ed utile come rifugio o gioco da ragazzino, oppure guidata per anni, sempre la stessa, persa senza averla persa, ma solo dimenticata, quindi sostituita per necessità meccanica più che per rispondere a sopraggiunte e nuove esigenze nella funzione tipica dell'automobile, il movimento. Una risorsa ed al tempo stesso un peso economico. Lo spostamento dal punto A al punto B, per quanto vicino o lontano siano i due punti, si distribuisce in tutte le pagine. Spesso a piedi o in bicicletta quando l'acquazzone improvviso può causare discussioni sul come ci si deve muovere sotto i portici del centro e di come portare a spasso cani che marcano per necessità fisiologiche il territorio.
Delle case si scrive senza parlare delle case. Sono quasi luoghi metafisici che trascendono mura, pavimento e tetto se non fosse che acquisiscono fisicità quando si parla di insetti e dell'insettone, forse emigrato, chissà. La casa delle vacanze e della città persistono con annesse ristrutturazioni, acquisti, iniziazioni all'età adulta, dinamiche familiari, questioni di decoro condominiale e sorprendenti comunanze tra ascensori di palazzi modenesi così diversi e così simili. La porta semplicemente tirata dietro, anche se blindata, non è garanzia di sicurezza e diventa buona prassi dare due mandate che, al tempo stesso, rendono sicuro anche quando ci si trova in casa e diventano oggetto di preoccupazione quella notte in cui un malore viene scambiato per un qualcosa di molto più grave, che per fortuna non è.
Poi il medico di base e la presa di coscienza che può succedere che non potrà accompagnarti per tutta la vita e dovrai attrezzarti per trovarne un'altra e poi un'altra ancora. Dietro a queste ricerche si cela sfortuna e fortuna, come in tutte le cose che riguardano le vite, sia quelle classificabili come normali, sia quelle inclassificabili.
In questo mare, immoto, che pure fluisce in movimento perenne verso la riva, io voglio raccontare un mio personale aneddoto. Quando sono entrato in libreria, e mi sono trovato davanti al volume, mi sono detto "questo lo devo leggere, magari ci trovo dentro il mio amico". Ho proprio pensato "ci trovo dentro" che, in fondo ho scoperto solo dopo, questo libro altro non è che una grande scatola. Ed in effetti il mio amico c'è dentro, che poi il mio amico è la cosa in comune che io e l'autore abbiamo. Quindi devo ringraziare Alessandro Fili che, per trovarlo, l'ho cercato in questa scatola che è stata una lettura felice e ringraziare anche Ugo Cornia che quella lettura felice l'ha pensata e realizzata consentendomi di aprire questa scatola. Ed alla prima influenza in comune ci ritroveremo a guardare il tennis, io felice in continuità con la vita da sano, lui felice in discontinuità con la vita da sano, ma questo lo può capire solo chi ha la ventura di leggere il libro.
Autore: Chuck Palahniuk
Giudizio: **
Tutto gravita intorno al dolore, fisico e psicologico. Ancora una volta c'è un gruppo di ascolto e di aiuto. È centrale perché istiga e redime, sollecita e perdona, guida e arresta. Ancora una
volta c'è un disagio personale che sfocia, implacabile, nell'abuso di cocktail alcolici e farmacologici per non voler ricordare e quindi per non voler sapere: la sofferenza è molto più reale
della realtà, la sofferenza non è finzione anche se ti viene somministrata come tale. La sofferenza può sovvertire le sorti del mondo e, certamente, può provocare altra sofferenza. Il killer è il
suono della sofferenza che produce disastri nel momento dell'ascolto collettivo.
Due storie parallele confluiscono, quasi per sfinimento, in un'unica storia. Un padre che perde la figlia ancora bambina ed insegue la sua personale crociata contro la pedofilia, una figlia che
perde il padre (e la madre) e prosegue nell'arte del rumorista di cui il padre era maestro. Dall'incrocio dei dolori di questi due personaggi nascerà qualcosa di speciale, il perpetuarsi di ciò
che non potrà mai essere diverso quando l'arte mercificata passa sulla vita delle persone per essere riconosciuta come tale. A compendio le due storie si inseriscono in un complotto esile,
minuscolo rispetto alla grandezza di ciò che è l'arte che ne scaturisce, ma fondamentale per rilanciare una star, per accettare come vere storie che non sono mai esistite, accertare la verità che
altrimenti non sarebbe stato possibile raccontare. È Hollywood che va salvata da sé stessa, è Hollywood che va preservata nella sua favolosa luccicanza dove tutto è bene ciò che finisce bene,
anche la sofferenza.
Autore: Denis Johnson
Giudizio: ***
Siamo in Vietnam tra guerriglia, bombardamenti, droghe, spionaggio, violenze sui civili e smarrimento personale di qualsiasi regola di comportamento che si è seguita fino a quel momento. Questo è il Vietnam, apparentemente niente di nuovo, eppure il romanzo si muove su direttrici non convenzionali a cui, soprattutto i film, ci hanno abituato. La guerra fu combattuta sul campo, ma anche altrove e non sempre e solo contro le postazioni nemiche. Una guerra "personale" dentro la guerra anticomunista che muove fili oscuri e che lascia allo scoperto soldati americani perché di un altro reparto, agenti nemici necessari per il doppio gioco, ma bruciati da reparti americani che non ne erano a conoscenza.
Il clima della guerra è terribile, ma al tempo stesso straniante, tanto da far dire ad una dei protagonisti che i soldati erano in grado di prendersi cura di cuccioli smarriti e randagi dopo aver massacrato popolazioni indigene: “Fra gli stranieri che la guerra rese irriconoscibili – anche, o soprattutto, a se stessi – c’erano una giovane vedova canadese e un giovane americano che a volte si vedeva come l’Americano Tranquillo e a volte come l’Americano Brutto, e che non voleva essere nessuno dei due, ma avrebbe voluto essere l’Americano Saggio, o il Buon Americano, e che invece finì col sentirsi il Vero Americano e infine semplicemente l’Americano Schifoso.” Il disprezzo per quello che si fa viene sublimato nel disprezzo per quello che si è diventati.
Il dopo guerra non sarà di redenzione, ma un inseguimento ad una verità che ti è passata a fianco e della quale non ti sei accorto. Ed anche il finale non sarà lineare. La sottile linea rossa non è narrata in questo libro perché, se c'è stata, i protagonisti non l'hanno percepita. Il nemico erano talpe da andare a cacciare in tunnel infiniti, ovvero americani che sceglievano te come carne da macello del giorno anche se eri un eroe nazionale, figurati che peso avrebbe avuto essere un contadino dell'Alabama.
Non è stato un buon mattino e nemmeno una buona notte.