Qual è il ruolo del sindacato nella globalizzazione?

La storia del sindacato è caratterizzata da iniziative di lavoratori, riuniti inizialmente in organizzazioni spesso clandestine, che hanno lo scopo principale di tutelare la vita e le aspirazioni al miglioramento della stessa per tutta la classe lavoratrice. I sindacati hanno operato attraverso il conflitto e le lotte per ottenere la fine del lavoro minorile, per il miglioramento della sicurezza dei lavoratori, per aumentare i salari ed in generale per migliorare il tenore di vita dell'intera società, per ridurre le ore di lavoro settimanali, per fornire a tutti una pubblica istruzione ed in ultima analisi per portare benefici per il lavoro salariato. Questa constatazione è sintomatica del rendere conto di quello che è stato il movimento sindacale e di quello che dovrà essere nel futuro se non vorrà snaturare la propria storia che prese le mosse in un momento in cui l'economia mondiale ebbe un repentino mutamento. Ci riferiamo alla rivoluzione industriale che soppiantò il precedente concetto di lavoro artigianale e contadino, rivoluzione che, per portata e per effetti sull'economia del pianeta, è certamente paragonabile all'attuale globalizzazione.
Fin dagli albori della rivoluzione industriale, in Inghilterra, l'azione sindacale si è manifestata come naturale e necessaria contrapposizione delle istanze dei lavoratori (poi identificati con il proletariato) all'emergente classe padronale industriale ed istituzionale (borghesia).Le nuove frontiere tecnologiche definirono la necessità di istituire moderni modelli produttivi e di organizzazione del lavoro che garantissero, all'interno delle fabbriche, il raggiungimento della produzione necessaria per giustificare l'esistenza della fabbrica stessa. In questa ottica si operò sia a livello istituzionale e politico, sia a livello culturale per garantire ai padroni delle fabbriche quella manodopera necessaria all'esistenza stessa della fabbrica. Nacque in quel momento, verso la fine del '700, il concetto di lavoro salariato e di proletariato urbano, ovvero si materializzò una classe di cittadini privi di particolari conoscenze tecniche che in cambio della propria opera in fabbrica ricevevano un salario. Il risultato fu un repentino e brusco mutamento della vita degli uomini e delle donne che si trasferirono dalle campagne per vivere e lavorare spesso in luoghi malsani e con orari di lavoro estenuanti. Questo snaturò il modello sociale conosciuto fino a quel momento. I lavoratori, come risposta, si aggregarono attraverso l'identificazione di uno status comune e di rivendicazioni comuni. Si coalizzarono per fare fronte comune al degrado ed alla miseria in cui erano costretti a vivere e lavorare dando vita ad aggregazioni che possono considerarsi le prime organizzazioni sindacali. Questo fece sì che l'evoluzione del sindacato, avviata tra i lavoratori verso al fine del '700 nelle fabbriche inglesi, si concretizzasse nei decenni successivi con la conquista di diritti e tutele. Va detto che questo fu possibile anche grazie al mutato orientamento delle classi dirigenti e politiche che vollero e seppero dare delle risposte attraverso la stesura di leggi che limitassero soprusi e vessazioni ai danni dei lavoratori. E' quindi evidente che l'azione sindacale fu in qualche modo affiancata, anche se quasi mai apertamente, da una certa classe politica che intravedeva gravi pericoli, per il mantenimento dello status quo, portati dal crescente potere contrattuale dei lavoratori. Per questo motivo la politica "concesse" riforme tali da limitare l'impatto dei sindacati e degli emergenti partiti socialisti e comunisti sulle masse popolari. Infatti in tutto ciò non va dimenticato che un peso fondamentale nel sindacato, soprattutto in Europa, lo ebbero proprio i partiti socialisti, comunisti ed anarchici che, a diverso titolo e con accenti diversi, identificavano nel lavoratore il soggetto principale della futura società. I sindacati molto spesso presero questi partiti come riferimento politico e culturale per far crescere e maturare le rivendicazioni dei lavoratori. Nell'Europa della Restaurazione delle monarchie queste formazioni politiche riuscirono a ottenere risultati tali da imporre ai parlamenti l'approvazione di riforme, seppure limitate, che andavano nella direzione di sostegno ai lavoratori e quindi anche all'azione sindacale che si stava caratterizzando in quel periodo. Da notare che questo lo si ottenne anche in assenza di una rappresentanza politica parlamentare particolarmente consistente. La spinta popolare ebbe un'influenza fondamentale, più della rappresentanza politica.
Naturalmente il processo fu molto lento e per nulla uniforme, con grandissimi differenze tra i singoli stati. Se in Inghilterra il lavoro minorile viene di fatto bandito nella prima metà dell'800, in Italia, stato industrialmente più arretrato e con grandi differenza sul territorio, il lavoro minorile è ancora diffuso sia nelle fabbriche sia nelle campagne ancora dopo la prima guerra mondiale. In Italia la prima legislazione sul lavoro risale ai primi del '900 e garantisce e legittima le organizzazioni sindacali che operano in quel periodo. Negli Stati Uniti il processo di nascita e consolidamento del sindacato avviene in modo ancora differente attraverso l'organizzazione corporativa di particolari categorie e segnando forse per questo stesso motivo frequenti rotture del fronte sindacale. Per esempio, la presenza minoritaria dei partiti politici di ispirazione socialista e comunista, che in Europa sembra essere elemento collante per le organizzazioni sindacali, negli Stati Uniti ha invece effetti contrari e disgregatori.

Nonostante queste evidenti frammentazioni tra le azioni sindacali nei diversi Stati e addirittura tra formazioni sindacali all'interno degli stessi paesi, a partire dalla seconda metà dell'800 si pongono le basi per la nascita di un movimento sindacale internazionale. Ancora una volta l'internazionalismo legato alle filosofie socialiste, comuniste ed anarchiche ha un peso fondamentale. Tuttavia le due guerre mondiali e poi la guerra fredda impediscono una reale e concreta azione del sindacato a livello internazionale, nonostante l'approvazione del fondamentale testo votato a Filadelfia il 10 maggio 1944 dalla International Labour Organization (ILO) che all'articolo 1 dichiara quanto segue:
"a) il lavoro non è una merce ;
b) le libertà di espressione e di associazione sono condizioni essenziali del progresso sociale ;
c) la povertà, ovunque esista, è pericolosa per la prosperità di tutti ;
d) la lotta contro il bisogno deve essere continuata in ogni paese con instancabile vigore ed accompagnata da continui e concertati contatti internazionali nei quali i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, in condizioni di parità con i rappresentanti governativi, discutano liberamente e prendano decisioni di carattere democratico nell’intento di promuovere il bene comune."
Questa dichiarazione, fatta mentre il secondo conflitto mondiale era ancora in corso, pone le basi per gli sviluppi successivi di associazioni in strutture sindacali internazionali e si pone come linea guida da perseguire e percorrere nell'operato dei sindacati nazionali. Si dovrà però attendere la caduta del muro di Berlino perché il peso ideologico del "blocco sovietico" consenta anche a sindacati occidentali di estrazioni socialista e comunista di iniziare un'azione comune con sindacati la cui matrice non si identifica nelle filosofie politiche sopra citate.
Purtroppo quanto sancito dalla dichiarazione di Filadelfia non trova sempre una reale applicazione nemmeno nei paesi che aderiscono all'ILO. Infatti ancora oggi l'attività sindacale è spesso caratterizzata da violente repressioni che producono un duplice risultato: intimoriscono i lavoratori ed indeboliscono i sindacati. Si va dalle repressioni con percosse, violenze, incarcerazioni ed addirittura omicidi di sindacalisti e lavoratori anche in paesi formalmente democratici (Colombia, Cina, Cuba, Filippine, Bielorussia,...), fino ad attività più "blande" di alcuni governi che di fatto limitano i diritti dei lavoratori ed impongono restrizioni alle attività sindacali per via legislativa (Australia, Svizzera, Stati Uniti, Algeria, Egitto, Arabia Saudita,...). In quest'ultimo caso si sta verificando il percorso inverso rispetto a quello che avvenne agli albori del sindacato quando invece la politica si fece carico di "arginare" la forza sindacale concedendo riforme apprezzate e ricercate dai sindacati stessi. Questo dimostra la forza dirompente che ebbe il sindacato al suo inizio e invece la sua attuale "debolezza" in alcuni contesti. Se pensiamo che tra questi contesti si devono annoverare Australia e Stati Uniti è naturale pensare che lo scontro sociale è stato spostato. Lo scontro è probabilmente diventato ideologico e legato alla globalizzazione in corso che rende necessario modificare i rapporti di forza tra lavoratori e aziende per aumentare la competitività di queste, e di conseguenza degli Stati, nella competizione internazionale. Infatti di fronte alle tendenze liberiste o neo-liberiste dei governi statunitense ed australiano, i sindacati non sono stati in grado di fare un fronte comune dei lavoratori ed i governi hanno potuto approvare leggi che ne limitano i diritti in nome di una maggiore competitività internazionale. Processi analoghi stanno prendendo piede anche in Italia.

Infatti va rimarcato che spesso il "filo rosso" che lega azioni antisindacali ai danni delle organizzazioni sindacali o dei lavoratori stessi ed i governi degli Stati in cui si manifestano queste azioni è la necessità di assecondare o cavalcare la globalizzazione per garantire la stabilità delle economie dei paesi stessi. L'esempio certamente più eclatante è quello cinese, dove i diritti dei lavoratori sono compressi tra le esigenze produttive ed organizzative delle aziende occidentali, che hanno de-localizzato gran parte della loro produzione manifatturiera in Cina, ed i sindacati locali che hanno il preciso compito di controllare i lavoratori in nome e per conto del Partito Comunista Cinese. Qualsiasi forma di protesta o di dissenso attraverso sindacati autonomi è punita con la reclusione. Ancora una volta, come in passato, si verifica quella trasformazione da società rurale a società industriale in presenza di un regime totalitario che nega i diritti e le tutele minime ai lavoratori. La spersonalizzazione, l'annullamento, l'alienazione che stanno subendo centinaia di migliaia di giovani cinesi "deportati" dalle campagne nelle città non deve essere molto dissimile da quello che avvenne nell'Inghilterra nella seconda metà del '700.
Negli Stati Uniti, al contrario, si sta manifestando un nuovo fenomeno di inclusione all'interno delle organizzazioni sindacali. I sindacati USA che un tempo erano "protezionisti" e tendevano a rappresentare e tutelare solo i lavoratori autoctoni, rendendosi conto che il loro peso contrattuale ed il loro potere va lentamente scemando anche nei settori tradizionalmente forti (edilizia e industria metalmeccanica su tutti) stanno coinvolgendo lavoratori immigrati, cercando con queste iniziative un elemento di sopravvivenza. Eppure, nonostante questa azione, i sindacati americani stanno perdendo rapidamente tesserati. Va detto che questo processo si sta manifestando in un momento in cui l'economia sta attraversando un periodo di prolungata stagnazione, ma è evidente che un fronte sindacale diseguale e non compatto rende più deboli i singoli lavoratori e le loro rivendicazioni. L'iniziativa di coinvolgere soggetti fino ad oggi esclusi è certamente lodevole, ma non può prescindere dal ricoinvolgimento dei "vecchi lavoratori", pena l'avere comunque un fronte sindacale diseguale e disunito.
Discorso analogo vale per la Francia, dove il livello di sindacalizzazione è tra i più bassi dei paesi occidentali. Eppure nonostante questa situazione oggettiva, i lavoratori francesi, soprattutto del pubblico impiego e dei trasporti, sono stati in grado di dare vita ad una mobilitazione lunga ed articolata che ha costretto governi di diverse tendenze politiche a rivedere le proposte di legge che evidentemente non erano gradite ai lavoratori stessi. Questa situazione paradossale è forse da spiegarsi con una coscienza civica che in altri paesi, come per esempio l'Italia, non è così sviluppata. Durante lo sciopero dei trasporti, che ha paralizzato per diversi giorni la Francia, i lavoratori in sciopero hanno ottenuto la solidarietà dei concittadini e questo ha garantito il buon esito della vertenza, nonostante il numero di lavoratori tesserati sia molto piccolo rispetto al numero di lavoratori complessivo. Pare quindi che in Francia non sia la sindacalizzazione l'elemento costitutivo delle lotte sindacali. In quel contesto evidentemente la rivendicazione del mondo del lavoro viene percepita come opzione più generale, quasi sociale, all'interno delle dinamiche dello Stato.

In Italia la situazione è certamente complicata dalla congiuntura economica non favorevole, ma non solo. Le scelte dei governi che si sono susseguiti negli ultimi 10 anni sono state improntate più alla deregolamentazione del mercato del lavoro, con la relativa compressione dei diritti dei lavoratori, piuttosto che agli interventi strutturali volti a riqualificare il tessuto produttivo proprio della nostra tradizione. Nel mercato globale si è scelto di competere abbassando il costo del lavoro piuttosto che aumentando la qualità dei nostri prodotti e delle nostre produzioni. Il risultato più evidente della combinazione delle leggi Treu e Biagi è che i lavoratori sono ancora più soggetti, di quanto non lo fossero in passato, al ricatto dei datori di lavoro per il mantenimento del posto di lavoro. Questo produce di conseguenza una diminuzione dell'adesione al sindacato in quanto, di per sé, la scelta di iscriversi al sindacato potrebbe essere interpretata dal datore di lavoro come una scelta "conflittuale" e di conseguenza portarlo a considerare il lavoratore poco "affidabile". Nemmeno le proposte che si stanno leggendo in questo periodo da parte del professore Ichino, come la delazione nelle strutture pubbliche per stabilire processi meritocratici, oppure il superamento dell'articolo 18 per rendere più dinamico il mercato del lavoro, possono ritenersi proposte che vanno nella direzione di aumentare le tutele dei lavoratori. Semmai è vero il contrario. Già oggi in una realtà come quella italiana, dove si è scelto di competere sul costo del lavoro e non sulla qualità, è naturalmente più "appetibile" un giovane lavoratore, semmai precario e quindi per sua natura meno "conflittuale" e più "affidabile", rispetto al lavoratore esperto e certamente più costoso. Il risultato di questa situazione è che spesso ci si trova nell'assurda situazione del lavoratore espulso dal mercato del lavoro perché troppo anziano, ma che non ha maturato il diritto alla pensione perché troppo giovane. Diminuendo ulteriormente le tutele per i lavoratori questo paradosso non potrebbe che aumentare.

E' del tutto evidente che l'impatto che la globalizzazione ha sul mercato del lavoro in questi anni ha provocato grossi mutamenti. Le politiche attuate per governarla o, meglio, per cercare di governarla sono in qualche modo state definite a livello di governi nazionali e vanno tutte nel segno di rendere flessibile il lavoro, con il corollario che questa flessibilità, in Italia, si è tradotta in precarietà. Anche in Europa, pur in presenza di direttive di indirizzo generale per tutti i paesi, ogni Stato ha optato per strategie personalizzate. Non è un caso che la Germania, per esempio, abbia concluso importanti accordi commerciali con Cina e Russia de-localizzando relativamente poco, mentre l'Italia abbiamo sottoscritto accordi commerciali in tono minore con entrambe queste superpotenze, ma consegnando gran parte del tessuto produttivo alla de-localizzazione in paesi stranieri dove il costo del lavoro è decisamente inferiore a quello italiano. Peraltro la cosiddetta direttiva Bolkestein, nella sua stesura iniziale, prevedeva un meccanismo che sanciva la possibilità di applicazione delle condizioni lavorative del paese europeo di origine anche nel momento in cui l'azienda si fosse trasferita con un'unità produttiva in un altro paese della comunità europea. Ovviamente questo avrebbe significato una ulteriore destrutturazione del mercato del lavoro ai danni dei lavoratori, sia in termini di diritti, sia in termini di salario, sia in termini di tutele.
La globalizzazione ha avviato processi di cambiamento su vasta scala producendo una crescente interdipendenza nelle relazioni economiche tra Stati diversi (commercio, investimenti, finanza, organizzazione della produzione globale) e di conseguenza anche nell'interazione sociale e politica tra organizzazioni sindacali ed individui di Stati diversi. Questo sancisce il fatto che tutti noi siamo parte di una stessa comunità globale, molto più ampia di quella a cui eravamo abituati a pensare. Tuttavia questa nuova dimensione ci deve porre nella condizione di ridefinire il senso di condivisione dei valori universali come la solidarietà di tutti i popoli della terra e quindi dei lavoratori stessi. L'economia globale potenzialmente ha grandi capacità produttive e, se gestita in modo virtuoso, può costituire una fonte di progresso materiale, generare posti di lavoro e di conseguenza contribuire significativamente alla riduzione della povertà nel mondo.

Purtroppo ad oggi il processo di globalizzazione sta producendo effetti molto diversi, sia tra i vari paesi, ma anche all'interno di settori e territori di stessi paesi. Si sta creando ricchezza, ma sono troppi i paesi e le persone che non ne traggono alcun beneficio. Per la stragrande maggioranza delle persone la globalizzazione non è venuta incontro alla legittima aspirazione di avere un lavoro dignitoso e un futuro migliore per i propri figli. Molti lavoratori sono costretti a vivere dell'economia informale senza diritti persino in paesi in cui l'economia è fiorente. In altri casi addirittura la risposta alla globalizzazione è quella di destrutturare il mercato del lavoro utilizzando in modo ideologico l'argomento della globalizzazione. Va ricordato che lo sviluppo dei movimenti no-global o altermondisti raccoglie lo sconcerto dei molti che non vedono negli attuali processi di globalizzazione miglioramenti delle condizioni di vita, perché molti lavoratori e comunità hanno subito conseguenze negative a causa della globalizzazione. Non è un caso se oggi in Italia si verifica e si riscontra che, per la prima volta, la generazione dei figli ha livelli di benessere inferiore a quello dei padri.

Il sindacato deve farsi carico di questa situazione di disuguaglianza inaccettabile che affligge le fasce più deboli delle società locali e della società globale. L'impegno sindacale deve essere profuso affinché si definiscano delle politiche congiunte e coordinate che possano contribuire a ribaltare l'attuale situazione. Certo il percorso non sarà breve, ma il sindacato deve operare costantemente affinché i legislatori portino gli aggiustamenti necessari al superamento delle ingiustizie. Certamente la sfida non è semplice perché oltre alle popolazioni emergenti si devono dare prospettive di miglioramento anche alle popolazioni delle nazioni già industrializzate e tenere insieme le due cose potrebbe aprire contraddizioni anche all'interno della classe dei lavoratori. Non a caso in Italia stiamo toccando con mano uno degli effetti di questa dicotomia legata alla globalizzazione: il razzismo. I lavoratori italiani percepiscono i lavoratori immigrati come quelli che vengono a "rubare il lavoro" nella migliore delle ipotesi, oppure a delinquere nella peggiore delle ipotesi. Il sindacato deve agire sempre nel rispetto della fratellanza tra i popoli, operando affinché le barriere culturali e religiose possano essere abbattute e debellando queste tendenze razziste ingiustificabili. Per farlo il sindacato deve avere il coraggio di parlare con tutti i lavoratori spiegando che se la torta da spartirsi è più grande, ce n'è di più per tutti. La via del sindacato deve essere quella di far crescere i salari, le tutele, i diritti di quei lavoratori che non ne hanno, oppure ne hanno in misura minore. E nel farlo deve rivendicare questo miglioramento, apparentemente solo di alcuni, come il miglioramento in prospettiva per tutti. Qualsiasi altra via sarebbe deleteria e segnerebbe inevitabilmente degli arretramenti perché dividerebbe ancora di più i lavoratori.

In questo le legislazioni che si sono susseguite in Italia certamente non hanno dato un contributo positivo. Lo dimostra chiaramente l'attuale società italiana, dove per combattere la disoccupazione si è scelta la strada di ridurre i diritti dei lavoratori. Stiamo parlando di tutti quei lavoratori che non hanno le ferie e le malattie pagate, oppure ai quali viene rinnovato il contratto semestralmente. Se da un lato questo ha indubbiamente avuto un beneficio in termini quantitativi, dall'altro ha prodotto un disastro nella qualità della vita delle persone, con l'inevitabile degrado della stessa società che poi partorisce i fenomeni di razzismo a cui ci riferivamo sopra.
Imputare questa situazione alla mera globalizzazione è miope, tanto più che la globalizzazione comunque procederà indipendentemente dalle scelte delle singole nazioni. Però se il sindacato opererà in modo coerente e diffuso a livello internazionale per far crescere le tutele ed i diritti di tutti i lavoratori, allora avremo una globalizzazione che si fa anche carico di redistribuire in modo globale a tutti gli attori del processo di globalizzazione: dall'operaio cinese al pastore boliviano, dalla commessa italiana allo stradino russo, dall'agricoltore africano al cuoco spagnolo, ...

Per ottenere i risultati sopra accennati, il sindacato deve avere la capacità di controllare e verificare le scelte industriali e di organizzazione del lavoro, affinché non possano esservi scelte opportunistiche da parte delle aziende e dei governi che svantaggino i lavoratori per un tornaconto economico. Il sindacato deve porsi obiettivi ambiziosi: garantire la stabilità sociale ed economica alle popolazioni occidentali e far crescere costantemente il tenore di vita delle società in via di sviluppo. La sfida potrà essere vinta solo se si perseguiranno contemporaneamente queste due vie, altrimenti il rischio è quello di generare un'impropria contrapposizione tra lavoratori di nazioni diverse, con il risultato di una crescita del tenore di vita dei paesi più poveri e l'inevitabile sconfitta dei sindacati nei paesi più ricchi, dove i lavoratori non capiranno perché è fondamentale che crescano i diritti di stranieri ed immigrati per garantire i propri diritti.

 

da http://www.spazioformazione.it
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