Il sindacato deve difendere la donna scalza o il "ricco" disoccupato?

da http://www.spazioformazione.it/
da http://www.spazioformazione.it/

La vignetta è paradossale e paradigmatica (anche se non ancora allineata all'era euro), ma secondo me inquadra molto bene il nocciolo della questione che deve affrontare il sindacato e le contraddizioni nelle quali spesso opera. Contraddizioni che se possibile cerca di governare, non sempre con efficienza ed efficacia per le
condizioni dei lavoratori...
La vignetta è paradossale perché ovviamente non è dato spiegare al marziano, che ieri è sceso sulla terra dopo aver metabolizzato la nostra storia recependo che l'uguaglianza dovrebbe essere patrimonio comune dell'umanità terrestre, come sia possibile che nel nostro mondo una lavoratrice non possa permettersi le scarpe, mentre un disoccupato abbia quelle più costose ed alla moda.
La vignetta è paradigmatica perché fotografa in modo sintetico ed efficace quella che può ritenersi come la povertà nella ricchezza o, per dirla in altro modo, la ricchezza nella povertà. Perché va detto che il disoccupato è "povero" per la latitudine in cui vive. Molto probabilmente è uno dei "bamboccioni" a cui pensava l'allora ministro Padoa Schioppa in una infelice esternazione che avrebbe dovuto
"sferzare" le nuove generazioni italiane e che invece ha dimostrato quanto lontano il ministro fosse dalla realtà del paese (con tutto quello che ne consegue delle sue scelte economiche e politiche).
Questo disoccupato può permettersi quelle scarpe perché mamma e papà gliele pagano, ma è personalmente dipendente dalla famiglia. Non è in grado di sostenersi, né tanto meno di creare una famiglia indipendente da quella di provenienza che, peraltro, gli consente comunque un tenore di vita fuori dalla portata della gran parte delle popolazioni mondiali. La sua povertà è data dalla mancanza di prospettive, non è una "povertà di beni".
La lavoratrice china sulla macchina da cucire invece può vantare la "ricchezza del suo lavoro", che magari le consente di sfamare la famiglia, ma non le consente di acquistare delle scarpe. Del resto evidentemente i bisogni primari hanno la precedenza. Certo la sua è una "ricchezza" davvero molto singolare, perché magari è costruita con 12 ore di lavoro al giorno, per 7 giorni a settimana, per 365 giorni all'anno in uno sgabuzzino buio. Quanto di più lontano si possa immaginare dalla "ricchezza" intesa nel nostro modello occidentale, ma certamente il contesto in cui si inserisce questa ragazza non è nemmeno lontanamente paragonabile con il nostro vivere quotidiano.

Detto ciò la questione posta nel titolo (devo difendere lui o la donna scalza?) credo sia impropria. Personalmente direi che come sindacato devo difendere entrambi.
Scegliere di difendere solo uno dei due significa sostenere che una guerra tra poveri debba in qualche modo essere avallata dalle scelte del sindacato ed introdurre nei fatti un concetto protezionistico dell'uno a scapito dell'altra. Io penso che fare la scelta tra i due non mi porterebbe lontano ed escluderebbe uno dei soggetti deboli delle rispettive società (per inciso non che questi soggetti siano gli unici soggetti deboli delle rispettive società, ma certamente deboli lo sono). Ovviamente nella situazione data devo avere l'accortezza che la difesa dell'una e dell'altro devono tenere conto di un contesto differente. Il contesto non è secondario e di conseguenza devo calibrare con molta attenzione quelle che sono le iniziative che hanno un senso per la ragazza scalza e quelle che invece sono iniziative che hanno un senso per il "bamboccione". E qui arriviamo alla difficoltà di declinare questa affermazione di principio in atti concreti.

Il sindacato deve produrre uno sforzo culturale enorme, anche perché in Italia siamo nell'assenza di una "dignitosa sponda politica" che possa supportarlo in questo tentativo (peraltro, di per sé, nell'attuale desolante panorama politico nostrano questo potrebbe anche non essere negativo). Lo sforzo culturale è quello di far crescere la lavoratrice scalza e di rendere consapevole il bamboccione che si trova sulla stessa barca della lavoratrice scalza: o crescono tutti e due, oppure affondano tutti e due e lui che cade da una "posizioni più alta" certamente sarebbe quello che subisce i danni maggiori. Il coinvolgimento, la consapevolezza dei lavoratori, la presa di coscienza dell'umanità dei lavoratori, anche se suonano molto "vetero e retorico", sono ancora gli unici strumenti che garantiscono una concreta possibilità di mobilitazione dei lavoratori. A loro va detto che la crescita è possibile solo se entrambi ne fruiscono e che la crescita dell'uno e dell'altra non potranno avere la stessa velocità, ma saranno inevitabilmente legate al contesto: la crescita della donna scalza dovrà essere necessariamente più veloce, mentre la crescita del ragazzo con le scarpe griffate dovrà essere più lenta per garantire un "ricongiungimento finale".
Questo potrebbe essere inteso come protezionismo? Credo di no. Io non vedo una misura protezionistica nel tutelare la vita e la salute dei lavoratori sempre e comunque. Purtroppo la vulgata comune, anche all'interno del partito democratico italiano, secondo cui si può avere sviluppo solo se si comprimono i diritti dei lavoratori rendendo la loro vita flessibile (perché anche quella diventa flessibile, omettere questa considerazioni nasconde sì un carattere ideologico in chi propugna
soluzioni flessibili che garantiscano le esigenze delle imprese dimenticando che il lavoro flessibile spesso snatura le vite delle persone) prevede che questo è necessario per dare fiato alle imprese (peraltro senza garanzia che poi vi sia una redistribuzione di ricchezza, anche solo parziale, come purtroppo dimostra la recente esperienza di centro sinistra). Questo pensiero è miope e non tiene conto del fatto che se già è difficile tenere insieme il mondo del lavoro (la ragazza scalza ed il disoccupato occidentale) con tutte le sue sfaccettature globali è impossibile tenere insieme il mondo del lavoro ed il mondo dell'impresa che hanno, per definizione, interessi diversi e spesso contrastanti.
Il sindacato deve avere la capacità di sostenere che se è vero che solo nello sviluppo ci può essere la redistribuzione è pur vero che in nome dello sviluppo non possono essere dimenticati i diritti umani prima che quelli dei lavoratori, diritti che devono essere universali. Un sindacato che affermasse e praticasse questa scelta politica non è protezionista, ma pratica un'azione di tutela dei lavoratori nel contesto in cui si trovano ed al contempo si fa carico di condividere con i lavoratori l'evidenza che i singoli sindacati, da soli, non possono essere garanzia del miglioramento delle condizioni degli ultimi, ma che inevitabilmente devono confrontarsi con realtà diverse da quelle nazionali e spesso peggiori di quanto si possa credere. Non è quindi un caso che le attività dei sindacalisti, anche in realtà "non sospette" come USA ed Australia, siano contrastate direttamente dai governi che le percepiscono come antieconomiche e protezioniste, mentre nella pratica potrebbero avanzare istanze di inclusione di lavoratori fino ad oggi esclusi dai diritti minimi (umani prima che sindacali). Secondo me un sindacato deve essere in grado di difendere le condizioni di tutti i lavoratori e porsi obiettivi che consentano i miglioramenti possibili nel contesto dato, locale ed internazionale.
E' naturale che nella situazione attuale i protagonisti della vignetta hanno necessità di interventi e tutele differenti. Però questo non si ottiene solo continuando a "far comprare" scarpe al disoccupatoitaliano fabbricate dalla ragazza scalza orientale. Si deve fare un salto di qualità che vada oltre la mera pratica economica del consumismo che garantisce lo sviluppo dei paesi occidentali e che inevitabilmente mantiene soggiogati milioni di lavoratori poveri nel "sud del mondo".

L'internazionalizzazione dei sindacati è un'entità che deve essere perseguita, ma che fatica a nascere in modo compiuto. Naturalmente le singole esperienza sindacali nazionali sono spesso molto distanti tra loro, sia nella pratica, sia nella storia sindacale. Il gap da colmare quindi, ancora una volta, non è solo organizzativo, ma è culturale. Del resto, almeno in Italia, la dimensione delle aziende con cui si ha a che fare è ancora di natura locale e nei casi in cui non lo è i sindacati si trovano ad avere a che fare con legislazioni differenti che ne impediscono la completa agibilità. Cito non a caso la legge "Bolkestein" come elemento di destrutturazione e di indebolimento di una rappresentanza forte dei lavoratori anche laddove la storia la garantirebbe. Infatti se io ho un'azienda che ha fabbriche in Italia ed in Romania certamente posso fare affidamento sulle leggi italiane per tutelare i lavoratori che sono impiegati in Italia, ma devo necessariamente fare riferimento alle leggi romene per il lavoratori impiegati in Romania. Inevitabilmente la forza del sindacato romeno è limitata. Questo ovviamente prescinde dallo sforzo organizzativo del sindacato perché è un elemento sul quale il sindacato può fare pressione, ma che per sua natura non può governare.
Naturalmente i sindacati internazionali faticano a nascere non solo per i limiti imposti dalle legislazioni del lavoro nazionali, ma anche per inerzie e contrasti che hanno natura storica. Banalmente le difficoltà che incontriamo anche in Italia dove non sempre si riesce ad avere una sintesi unitaria tra CGIL CISL UIL sono il paradigma di storie ed ideologie diverse che faticano a trovare una giusta composizione in un unico soggetto. Le difficoltà a livello internazionale non possono che essere aumentate e da qui la scarsa visibilità delle azioni internazionali delle confederazioni sovranazionali.

Per chiudere aggiungerei poi la categoria dei "consumatori" che non è irrilevante in questo discorso (vedi le campagne contro le multinazionali che sfruttano il lavoro minorile nelle regioni povere del globo). Io credo che il "consumatore" diventi una controparte dei lavoratori perché è portatore di interessi diversi da quelli dei lavoratori. Dobbiamo constatare che evidentemente stiamo vivendo in un periodo storico in cui l'individualismo è assolutamente padrone del campo. Il cittadino valuta quello che gli accade e lo circonda in modo positivo se gli garantisce un vantaggio diretto e personale, ma ravvede una soluzione cattiva se intravvede la mancanza di un beneficio nei suoi confronti. Garantire l'aumento dei salari e dei diritti ai lavoratori poveri comprimerebbe i profitti delle aziende che si sarebbero scaricati sui prezzi per i consumatori. Il lavoro del sindacato vive di queste contraddizioni ed anche per questo ritengo che un sindacato autorevole debba farsi carico di sostenere i lavoratori in quanto tali, anche quando queste posizioni possono essere percepite come protezionismo dai consumatori. Perché a ben vedere, se si cerca di fare tutto il lavoro, fino in fondo, forse non stiamo parlando di protezionismo.

Vedi anche "Qual è il ruolo del sindacato nella globalizzazione".