In una "carriera" breve e non intensa ho il ricordo delle dinamiche delle mie partite di tennis. Ci sono ricordi deludenti e ricordi esaltanti slegati dal risultato finale, ma strettamente legati
alla qualità ed all'estetica del mio gioco. Vincere o perdere era un'opzione che veniva sempre dopo la valutazione della qualità, il mio agonismo era minimale. Anche per questo vinsi pochissimo.
La mia partita migliore di sempre, quella nella quale ebbi la limpida sensazione di poter fare ogni cosa che mi immaginavo si potesse fare su un campo di tennis, la giocai in un quarto di finale.
L'opzione dell'uso dell'immaginazione sul terreno di gioco mi mancava. Io svolgevo il mio compito su un terreno noto, percorrendo strade già battute, secondo logiche predefinite e già viste o
sperimentate direttamente. Sono stato un giocatore tutt'altro che fantasioso.
Quel giorno invece tutto girò a meraviglia, come si dice, ero "centrato" ed "immaginifico". Il braccio rispondeva alla perfezione, il tempo di impatto sulla pallina era sempre perfetto. Pensare
ad una tattica di gioco punto per punto, era inutile perché qualunque fosse la scelta era sempre quella vincente. Il servizio era forte e preciso, la risposta di dritto era sicura come quella di
rovescio, a rete scendevo con tempi giusti, ma se ero in ritardo o se la risposta era molto bassa giocavo la demi-volè con tranquilla serenità e spesso il risultato di questo colpo, per sua
natura di difesa ed interlocutorio, era talmente preciso e ficcante che diventava un colpo di attacco inaspettato. Tutto era così perfetto che mi concessi, con successo, il colpo sotto le gambe
"alla Noah" recuperando un pallonetto che avrei potuto recuperare senza sfoggiare virtuosismi spettacolari, ma se non lo facevo quel giorno non lo avrei mai fatto. Questo colpo suggellò il mio
stato di grazia e la partita terminò in una trentina di minuti con un 6-0, 6-0 folgorante. Mi dispiaceva sinceramente per la "sfortuna" del mio avversario perché in quei 30 minuti, pensai,
nessuno avrebbe potuto battermi.
Vinsi quel torneo, ma le sensazioni dei quarti di finale si degradarono fino ad una finale deludente, seppur vittoriosa. In questa occasione giocai il primo set in modo più che sufficiente
mantenendo il controllo della partita e vincendolo senza infamia, ma pure senza lode. Nel secondo set ero avanti 4 a 1 quando mi "inceppai". Quello era il segnale dell'imminente disastro, il
sintomo da "tacchino freddo" che Galeazzi coniò per indicare un giocatore sopraffino, ma lontano dall'essere un cuor di leone, come Stefan Edberg. Persi il secondo set 6-4 e mi ritrovai sotto 3 a
0 nel terzo set. Di questi 8 game consecutivi persi non ho ricordo alcuno, vuoto completo, solo un susseguirsi di cambi campo nei quali cercavo di capire cosa stava succedendo senza riuscire a
darmi una spiegazione. Come sempre in questi casi la qualità del gioco dell'avversario era salita, rinvigorita da una rimonta irresistibile. Ma per mia fortuna la rimonta era tutt'altro che
irresistibile, io ero "uscito dal gioco" facendola apparire tale. Quando riuscii a "rientrare in gioco" le cose cambiarono nuovamente. La mia scarsa fantasia mi fu utile, e senza immaginare
invenzioni impossibili, in quel giorno mi aggrappai con pazienza a fare bene il mio compitino. Rino Tommasi avrebbe potuto definire questo mio approccio con le stesse parole che riservò a Claudio
Panatta: scende in campo con l'entusiasmo di un impiegato che sta andando a lavorare. Punto dopo punto, rimisi in campo tutto quanto avevo già sperimentato. Ebbi la fortuna di ritrovare la
fiducia in una partita apparentemente persa. Vinsi il terzo set 7-5. Gioco, partita, incontro. Pensai che in quella giornata forse il ragazzo sconfitto nei quarti di finale avrebbe avuto la
meglio su di me.
Nel corso dell'anno il nostro maestro organizzava incontri "interni" per darci l'opportunità di capire la differenza che esiste tra giocare a tennis per migliorare i colpi e giocare a tennis per
fare il punto. Nel primo caso passavi le ore a ripetere incessantemente un dritto incrociato che doveva cadere sempre in una certa porzione di campo, nel secondo caso dovevi capire al volo se era
utile giocare il dritto incrociato per fare il punto o se era meglio fare scelte diverse. Avere gli "strumenti", anche più precisi, non era sufficiente, dovevi sapere anche quando era utile
giocarli.
Per interrompere la routine assai monotona del ripetere ossessivamente le stesse azioni apparentemente fini a se stesse, il maestro ci faceva tirare fiato giocando tra noi. Capitava che i più
promettenti della categoria inferiore giocassero con qualcuno della categoria superiore. Io ero un under 14 ed avevo già giocato diverse volte con ragazzi under 16 perdendo regolarmente. Mi erano
superiori perché avevano una potenza nei colpi che ancora non riuscivo a reggere. Le partite però me le ero giocate, tanto che avevo conquistato la fiducia anche del maestro che mi inserì
stabilmente nel loro gruppo che era rimasto zoppo (erano rimasti in 3). Mi ero costruito una personale classifica dei miei nuovi compagni: due di loro erano al momento fuori portata, ma in una
loro giornata storta erano abbordabili, mentre il terzo lo ritenevo abbordabile fin da subito. I motivi tecnici erano assai schematici: il servizio era poco più di una semplice messa in gioco, il
dritto era buono, ma non stratosferico, il rovescio era senza qualità.
Come era ovvio che sarebbe successo fui messo a confronto anche con questo ragazzo, con cui non avevo mai giocato, e mi cullai nell'opinione che alla sera avrei potuto dire di aver battuto un
under 16. La partita iniziò ed io, forte della mia ingenua valutazione, decisi di giocare sempre sul rovescio e feci la prima scoperta: se era vero che questo colpo non aveva gran qualità, era
però assai regolare e quindi il punto lo dovevo conquistare io, non me lo faceva fare lui con un errore non forzato. Feci poi una seconda scoperta: era vero che il servizio era poco più di una
rimessa in gioco, ma era assai preciso e spesso lo seguiva velocemente a rete, quindi servivano le miei risposte molto aggressive per fare il punto. Feci anche una terza scoperta: il dritto era
più robusto, ma anche più falloso.
Il mio quieto vivere di aver identificato due punti deboli da sfruttare pigramente era naufragato. Ora l'opinione la dovevo dimostrare, non sarebbe stato sufficiente stare in campo. Per un tempo
di latenza troppo esteso giocai tutto il primo set nella logica che mi ero costruito. Il set lo persi. Il secondo set lo affrontai quasi "arrabbiato", iniziai ad osare di più, anche sul suo
dritto e questo mi consentì di conquistare il secondo set. Nel terzo però la mia foga un po' si spense ed iniziai ad essere più falloso. Lui se ne accorse e decise di adottare la mia strategia
iniziale: rimase poco più che in attesa ed i punti li conquistò quasi tutti per i miei errori. Persi la partita e dovetti subire anche la ramanzina del maestro che pensava che avrei vinto. (*)
Il maestro organizzava anche incontri amichevoli con altre società. L'obiettivo era evitare di fossilizzare le nostre esperienze agonistiche con ragazzi con cui ci allenavamo quotidianamente e di
cui conoscevamo pregi e difetti. Dovevamo sperimentare cosa significa competere con ragazzi di cui non conoscevamo il gioco, se non per i pochi scambi di riscaldamento, ed imparare a fronteggiare
la sorpresa. In tutta questa casualità quando arrivavamo sui campi degli avversari, o quando loro venivano sui nostri campi, cercavamo di capire chi avrebbe potuto essere il nostro avversario per
poterne studiare gli scambi che faceva con i compagni negli intervalli tra una partita e l'altra. In un'occasione identificai un ragazzo che pareva l'elemento centrale del suo gruppo sportivo,
infatti, nelle attese prima di iniziare la partita, era sempre presente a fare da sparring-partner con i suoi. Giocava esattamente come piaceva a me e giocava veramente bene! Le palle uscivano
secche e pulite dalla sua racchetta, era in grado di gestire scambi tesi appoggiando perfettamente il peso del suo corpo sul movimento fluido. Dritto e rovescio apparivano senza differenza. Aveva
la padronanza completa sulla pallina anche quando rallentava per aiutare il compagno a calibrare meglio il tempo sulla palla. Pensai: "spero non sia lui, spero non sia lui, spero non sia lui".
Poi arrivò il maestro e mi disse che potevo iniziare a riscaldarmi con un compagno perché la partita successiva sarebbe stata la mia contro quel ragazzino che stava palleggiando in quel momento.
Pensai: "sono rovinato!".
Il riscaldamento andò bene, sentivo bene la palla che usciva pulita dalla mia racchetta. Indubbiamente era un vero peccato avere queste buone sensazioni a premesse di una partita dove sarei stato
annientato dal mio avversario decisamente superiore.
La partita invece ebbe un andamento molto diverso rispetto ai miei presagi perché riuscivo a tenere testa al mio avversario. Ci furono 3/4 scambi molto intensi nei primi 2 game e conquistai io il
punto. Questo mi rese molto fiducioso ed al tempo stesso rese guardingo l'avversario. Aveva capito che il punto se lo doveva guadagnare. Quello che nella mia testa prima della partita era
scontato ora non lo era più. La partita era aperta. Alla fine persi il primo set per un paio di punti che uscirono di pochissimo, ma conquistai il secondo set per lo stesso motivo. Ci stavamo
affrontando in modo aperto, per quello che mi riguarda avevo messo in campo tutte le mie capacità e speravo che anche lui avesse fatto lo stesso, perché se aveva tenuto nascoste delle risorse io
non sarei riuscito ad andare oltre, io ero al massimo. Dal cilindro del mio avversario non uscirono sorprese e ci trascinammo al tie break dove persi i primi 4 punti che non riuscii a recuperare.
Gioco, partita, incontro. Uscito dalla "bolla" della partita mi resi conto che si erano tutti assiepati intorno al campo per vederci. Nessuno stava giocando sull'altro campo. Mi avviai verso la
rete per stringere la mano al mio avversario che mi chiese: "come ti chiami?". Devo aver fatto una strana faccia rispondendo "Massimo", lui però sorrise e disse: "bella partita, Massimo. Grazie".
Seppi replicare solo ripetendo "sì, bella partita" dando il senso del dovuto rammarico per averla persa sul filo di lana. In cuor mio però era stato qualcosa di più di una bella partita, era
stato tenere per due ore il campo occupato con un gioco brillante, era stato scoprire che potevo giocarmela anche con un giocatore così forte. Ne avevo la dimostrazione che smentiva la mia
precedente opinione.
(*) per la cronaca questa fu l'unica mia sconfitta con questo ragazzo, qualcosa avevo imparato