Il sergente nella neve

AutoreMario Rigoni Stern

Giudizo: *****

"Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato".
È tutto già accaduto. È tutto già finito. Non siamo in presa diretta, scorriamo il ricordo di poche settimane (giorni, ore, minuti), fredde, bianche, fatali. La seconda guerra mondiale, che per Hitler sarebbe stata una guerra lampo, è invece diventata una guerra di trincea, almeno sul Don. Gli alpini lottano con il freddo, con i pidocchi e con i russi. Guerra di trincea che gli alpini ricordano attraverso i ricordi dei padri e dei nonni impegnati nella prima guerra mondiale, con la differenza che, all'ora, gli italiani difendevano la Patria, ora gli italiani sono gli invasori. Il generale che saluta le truppe sfatte, annientate, fa riaffiorare alla mente del sergentmagiú il ricordo del nonno. Un'altra Caporetto. Ed i russi fanno quello che gli italiani fecero nella prima guerra mondiale: sono come noi.
A mio avviso ci sono diversi momenti che rivelano la straordinarietà di queste memorie.
Esiste l'"etichetta" della trincea: non si spara ad un soldato nemico che esce dalle trincee per raccogliere neve per farne acqua. Se i russi lo fanno, ed uno dei tuoi compagni muore, è perché sono forze fresche e non hanno ancora imparato il "galateo" da trincea. Sale la rabbia, ma è la guerra con tutto il dolore, la vecchiaia ed il ghiaccio che ti lascerà sulle spalle e nel cuore.
Lo stesso comportamento si deve tenere quando il soldato nemico scende nel letto ghiacciato del Don per recuperare morti e feriti dell'ultimo assalto. Sono come noi, siamo come loro. Loro hanno le Katiusce e le Maruske, noi abbiamo le Marie e le Terese. Con le terribili Katiusce bombardano le nostre postazioni, ma le stesse sono anche donne in carne ed ossa impegnate negli assalti alla baionetta. Che di baionette gli alpini ne sanno qualcosa, ma di catturare donne tra le file del nemico mica l'avevano messo in conto.
Poi inizia la ritirata che lascia a molti la speranza di poter tornare a "baita". Per farlo gli alpini devono aprirsi un varco nell'accerchiamento che i russi hanno concluso. Succedono cose terribili ed apparentemente straordinarie. Muoiono amici e compagni uccisi da ragazzi come loro che non hanno volti cattivi, ma che morranno pure loro uccisi dalla guerra. La "magia" accade in una isba dove il soldato italiano trova il tavolo occupato da soldati russi, armati come lui, in battaglia come lui, che stanno mangiando e la donna, una Maria od una Teresa perché è come se fosse un'italiana, dà da mangiare all'italiano ed il sergentmagiú ringrazia e se ne torna alla battaglia che è stata temporaneamente sospesa. Deve riportare il suo corpo, ancora umano, in Italia insieme a quello dei suoi uomini. Non sarà così per tutti. In Italia lo troverà il padre di un suo compagno, morto in terra russa, che vorrà sapere della morte del figlio e si farà accompagnare in osteria per "celebrare" il ragazzo che in Italia non è tornato.
So che faccio arrabbiare un amico, ma uso una sua frase diventata epigrafe su un monumento dedicato all'alpino. Me ne frego, come diceva il "puzzone" che mandò allo sbaraglio ed al sacrificio estremo la gioventù italiana, mi assumo la "responsabilità politica" dell'uso della citazione, altro passaggio caratteristico del "puzzone". Teniamolo a mente, tutti.
L'epigrafe è "Alpini uomini semplici che hanno fatto la storia". Al di là della retorica, che può essere usata da un tredicenne, dal libro emerge quanto questa frase non sia puro esercizio retorico di stile, ma constatazione di ciò che la storia ci ha lasciato. La storia fatta anche da uomini semplici, dal loro dolore, dalla loro rigorosa ubbidienza, nonostante tutto li avesse abbandonati, tranne la speranza e l'umanità.